Difficile accusare l’Ocse di essere una conventicola di “gufi”. Le previsioni di Chateau de la Muette a Parigi, sede dell’Organizzazione dei trenta Paesi del mondo a più alto reddito pro-capite, preconizzano crescita piatta (un misero 0,8% l’anno) per l’Italia nei prossimi due anni. Stime analoghe vengono dai corridoi del Fondo monetario internazionale e dal gruppo del “consenso” (i venti maggiori centri mondiali di analisi previsionale, tutti privati, nessuno italiano). Quasi in parallelo, il Presidente della Bundesbank e quello della Commissione europea affermano ufficialmente che l’Italia di flessibilità ne ha avuta sin troppa.



Quindi, salta la tattica che, secondo “maligni”, sarebbe stata definita dal Governo: ottenere flessibilità per aumentare il deficit corrente e includere nella Legge di bilancio interventi particolaristici tali da favorire categorie che potrebbero, nel successivo referendum, spostare parte dell’opinione pubblica verso il Sì. Nelle ultime ore, per tentare di mantenere l’ossatura della tattica, mutando la terminologia, non si parla di più di flessibilità, ma di esenzione dalla contabilità, su cui definire l’indebitamento netto della Pubblica amministrazione ai fini del rispetto delle norme europee, per le spese per l’ammodernamento degli edifici scolastici, per il terremoto e per i costi diretti dell’immigrazione.



Non si sa ancora quale sarà la risposta delle autorità e dei partner europei. Probabilmente negativa. Anche ove ci fossero aperture, sarebbero di corto respiro. I mercati (e gli italiani) sanno che non sono le convenzioni (e gli artifici) contabili a stimolare la crescita. Non solo, come abbiamo visto su queste pagine più volte (e ricordato la settimana scorsa), i Paesi del continente vecchio che hanno mantenuto tassi accettabili di crescita sono anche quelli che hanno tenuto sotto controllo il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil, ma la stessa Ocse ci ricorda che i Paesi che negli ultimi anni hanno ridotto il perimetro pubblico (e della spesa pubblica) sono quelli che hanno avuto sviluppo (pur moderato dalla situazione demografica del continente): la Gran Bretagna ha ridotto la spesa pubblica dal 48,8% al 43% del Pil, la Spagna dal 46% al 43,3%, l’Irlanda dal 47,2 % al 35,9% e hanno avuto tassi di crescita annui del 2,3%, del 3,2% e del 6,9%, mentre l’Italia ha aumentato la spesa complessiva dal 49,9% al 50,7% e ha un’economia che ristagna.



Artifici contabili che comunque aumenterebbe disavanzo e rapporto tra debito e Pil scoraggerebbero i mercati. Il Governo potrebbe trovarsi con una crisi finanziaria analoga a quella del 1992 e del 2011. Soprattutto per quel che riguarda lo spread non tanto con i titoli tedeschi, quanto con i Bonos della Spagna, Paese che, nonostante le difficoltà di formare un governo stabile, ha saputo ridurre il perimetro della spesa pubblica e tenere sotto controllo il rapporto tra stock di debito e Pil.

In parallelo, è importante notare che gli occupati italiani sono con i francesi quelli con minori ore di lavoro annuali effettive nel mondo occidentale. Lo aveva rilevato Edward Prescott in un saggio pubblicato (ma si tratta di mera coincidenza) lo stesso anno (il 2004) in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Uno studio freschissimo di Alexander Bick (Arizona State University), Bettina Bruggemann (McMaster University) e Nicola Fuchs-Schundeln (Goethe Universitat di Francoforte) – Iza Discussion Paper No. 10179 – utilizza i dati delle indagini nazionali sulle forze di lavoro dal 1983 al 2011 per esaminare le ore effettivamente lavorate per persona occupata a livello aggregato per 18 Paesi europei e per gli Stati Uniti. In generale, gli europei occupati lavorano, su base annua, il 19% di meno degli americani. Circa la metà del differenziale deve attribuirsi a livelli d’istruzione e a normative nazionali su ferie e congedi. E l’Italia ne esce male.

Cos’ha fatto l’unica misura di politica economica del Governo, il Jobs Act, per mutare tale situazione? Dato che c’è un nesso tra ore lavorate, produttività e crescita, la materia richiede attenzione. Più della contabilità creativa.