Sopravviverà la finanza mondiale al crollo di Deutsche Bank? La domanda, provocatoria, per ora è tabù: certo, ripetono in coro le istituzioni governative e internazionali, il colosso ha dei problemi, ma ne verrà fuori, come assicura il suo presidente John Cryan. Ma il malessere dell’istituto, forse la banca che vanta più collegamenti e connessioni nell’economia globale, getta una luce sinistra sullo stato di salute del sistema del credito, sette anni dopo il crollo di Lehman Brothers. E sull’Europa che, a differenza degli Usa, non ha saputo trovare una soluzione efficiente ai problemi delle banche e, più in generale, del finanziamento dell’economia. 



Eppure, è proprio in questa direzione che merita riflettere sulla crisi del colosso tedesco. Senza farsi distrarre dall’ennesima diatriba Italia-Germania o, peggio ancora, dalla speranza che le difficoltà di Deutsche e di Commerzbank spingano Berlino a nuovi salvataggi e, di riflesso, a essere laschi e clementi nei confronti degli istituti italiani. Difficile, quasi improbabile, che succeda. Più concreto, semmai, il rischio è che prevalga una visione “politica”, anzi dogmatica, della questione, favorendo la sopravvivenza di istituti zombie, in grado di mantenersi grazie al denaro gratis, ma di scarsa o nulla utilità per la crescita economica, com’è capitato in Giappone. In gioco, insomma, non è la sorte di una banca qualsiasi, ma il futuro del credito europeo, Italia compresa. Per questo proviamo a capire le cause della crisi e una sua possibile soluzione.



Deutsche Bank è la punta estrema di un un sistema bancario europeo ipertrofico che necessità di una drastica cura dimagrante. Nonostante la riduzione delle dimensioni dell’industria bancaria dal 2007 in poi (la quantità di banche presenti in Europa si è ridotta del 30%) il peso su Pil è ancora pari al 230%. In questo quadro a Francoforte è cresciuto nel tempo un problema strutturale di redditività: il cost/income ratio, cioè l’indicatore di efficienza economica tradizionale, ha raggiunto il 119%. Ovvero gli utili correnti della banca non sono sufficienti a pagare gli stipendi e i costi generali. 



Nel tentativo di dare una risposta al problema, Deustche Bank ha sviluppato una strategia a due teste: da una parte banca commerciale, dall’altra investment bank di dimensioni globali. Sul versante della banca commerciale DB si è trovata a combattere in un contesto nazionale (quello tedesco) difficile: redditività pressoché nulla, rapporto tra costi e ricavi tra i più alti al mondo, forte frammentazione del mercato creditizio tedesco, che ha posto il sistema in un sentiero di competizione sui prezzi che appare non più sostenibile, in un contesto di tassi a zero o negativi. L’istituto tedesco, dopo oltre vent’anni di sforzi, è diventato un colosso dell’investment banking. Ma un colosso dai piedi di argilla con risultati molto deludenti nonostante attività di bilancio per 1,6 trilioni di dollari derivanti da un valore nozionale di 42 trilioni. L’ultimo esercizio si è chiuso con una perdita di 6,8 miliardi, più del patrimonio netto tangibile (5,8 miliardi).

Inoltre, come ha notato Marco Onado, “poiché la banca ha dimostrato una rara capacità di essere coinvolta in tutti, ma proprio tutti gli scandali e gli illeciti finanziari degli ultimi anni, da qualche tempo è accolta nei principali mercati del mondo da un festoso tintinnio di manette. Le pesanti sanzioni pecuniarie con relativi strascichi di azioni civili di risarcimento sono diventate una delle principali voci di bilancio”. Fino alla mazzata finale inflitta dalla richiesta del Dipartimento della Giustizia americano: 14 miliardi di dollari per le irregolarità commesse nella stagione dei subprime. E così, come ha scritto l’Economist, oggi la banca “è un gigante che annaspa, più uno zombie che un campione”, senza un vero modello di business o una missione strategica. 

Un vero disastro, insomma, maturato attorno alla logica della crescita dimensionale e della ricerca a tutti i costi dei campioni nazionali cresciuti sotto lo sguardo benevolo dei politici e quello sonnacchioso delle autorità di vigilanza, la causa fondamentale delle debolezze attuali delle grandi banche europee. Come uscirne? La soluzione non è “meno istituti e meno filiali”, cosa che porterebbe a una crescita del potere di mercato delle grandi banche, ha detto Andreas Dombret, il banchiere della Bundesbank cui è stata affidata la supervisione sulle banche. Occorre una vera e propria “dieta” per il settore, che deve raggiungere una dimensione in linea con l’economia reale. 

Perciò, niente aiuti a “dinosauri che ritengono di essere al riparo dalla minaccia di estinzione solo perché troppo grossi” e quindi immuni dai pericoli rappresentati dal debito totale, dalla competizione tecnologica, dall’invecchiamento della popolazione e dai bassi tassi d’interesse. Ma la dieta deve interessare anche gli istituti piccoli e medi, soprattutto in un Paese come l’Italia che, scrive il Financial Times, “ha più filiali bancarie che pizzerie”. Anche perché la bulimia dell’Europa bancocentrica, in cui i soldi sfornati dalla Bce si fermano nelle tesorerie invece che raggiungere l’economia reale, è ben più indigesta che una Margherita o una Quattro Stagioni.