Il nuovo piano industriale (2017-2026) presentato da Ferrovie dello Stato italiane (Fsi), società interamente pubblica e “dominante”, cioè con oltre il 90% del fatturato del settore, sembra presentare molte più ombre che luci. Vediamole in breve. Innanzitutto il “grande tabù”: i sussidi pubblici. Fsi vive di sussidi pubblici, diretti e indiretti. Si può stimare che questi ammontino in media a circa 12 miliardi all’anno, tra sussidi alla rete, ai servizi, agli investimenti e allo speciale fondo pensioni. Senza questi, l’impresa chiuderebbe in breve tempo. Ma tali sussidi nel piano non vengono nemmeno nominati, il che appare un elemento di straordinaria opacità, per non dire di voluta disinformazione. Tutto è presentato come se Fsi fosse un’azienda privata che opera nel mercato.
Veniamo ora a qualche aspetto macroeconomico, di carattere in realtà politico, quindi non direttamente imputabile al management: la scelta di puntare sul settore ferroviario, esplicitata più volte dal ministro dei Trasporti Delrio e confermata dal piano, lascia molto perplessi. Le ferrovie sono, come abbiamo visto, un “pozzo” di denari pubblici, mentre la strada, con pedaggi e accise sui carburanti, una fenomenale “sorgente”. I benefici ambientali del ferro esistono, ma quantificandoli, risultano esigui rispetto al problema complessivo delle emissioni (dell’ordine dell’1% del totale, in caso di successo di questa costosa politica). Inoltre, si tratta di un settore strutturalmente molto capital-intensive, con ricadute occupazionali modeste per euro pubblico speso (le ferrovie oggi potrebbero funzionare quasi senza personale).
Ma veniamo alla voce mediaticamente più impattante, gli investimenti: 94 miliardi di euro nel periodo del piano. Una quota è dichiarata “autofinanziata”, ma il dato è molto ambiguo. Deriva probabilmente da profitti sull’Alta velocità e sui contratti di servizio con le regioni, e da altre attività remunerative minori. Nel caso delle regioni, poiché il settore non è ancora aperto alla concorrenza che certamente “limerebbe” tali profitti, si tratta comunque di soldi pubblici. I profitti dell’Alta velocità sono fatti in un contesto debolmente concorrenziale (due concorrenti sono pochini…), ma l’infrastruttura che rende possibili tali profitti è stata pagata interamente dallo Stato. Aerei e bus di lunga distanza, i concorrenti che non godono dell’infrastruttura gratuita, per queste pagano con i pedaggi una quota non piccola, come incidenza sulle loro tariffe.
Poi si prospetta la fusione della rete ferroviaria (Rfi) con Anas, l’estensione delle attività ai servizi bus e a quelli di trasporto pubblico urbano. Si passa da un colosso pubblico a un super-colosso pubblico, con quote private minoritarie, che dovranno essere garantite per realizzarsi (chi investirebbe altrimenti in un ente pubblico che vive di sussidi, con un padrone politico che un domani potrebbe avere idee diversissime, e magari liberalizzare davvero il settore?).
La moderna teoria regolatoria in tutto il mondo vede con molta diffidenza i colossi pubblici (e in qualche misura anche quelli privati), a causa della loro capacità di condizionare le scelte politiche a loro favore. Ma il super-colosso pubblico sarebbe un “campione nazionale” in grado di competere all’estero (coi soldi nostri).
Sembra una visione di politica industriale datata, visti anche i modesti contenuti tecnologici del settore, che produce servizi, non innovazione. Ricorda un po’ la vicenda Iri o Alitalia. Grazie, abbiamo già dato.