Renzi è alla rincorsa del consenso che gli serve per vincere il referendum e corroborare l’azione del governo. Ma il suo carattere da ex rottamatore non lo aiuta, e in fondo questo è il suo bello. Lo si è visto nel week-end sul tema delle banche e, in generale, del rapporto con i “poteri forti dell’economia”.
Nel settembre del 2014 Renzi neo-premier, ancora in “luna di miele” con l’Italia, non solo disertò il Meeting di Villa d’Este ma irrise a quella conventicola di teste d’uovo dichiarando che preferiva andarsene a Brescia a inaugurare una fabbrica di rubinetti, piuttosto che dai “soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Questa è la rivoluzione culturale che serve all’Italia: spalancare le finestre e fare entrare aria nuova”.
Evidentemente i due anni di “aria renziana” soffiata su Cernobbio devono aver ripulito l’ambiente, o magari l’aria pesante dei due-tre mesi che separano dal referendum ha portato suggerimenti diversi, fatto sta che quest’anno, il premier a Cernobbio c’è andato ed ha lasciato il segno. E del resto, pochi giorni prima — il 25 agosto — il suo governo aveva varato un decreto che per la prima volta restituisce ruolo alle Camere di commercio che due anni fa la prima fase della riforma minacciava di voler praticamente cancellare dalla faccia della terra. Piccoli revisionismi della rottamazione totale d’antan… Di questo passo, presto o tardi, Renzi potrebbe finire addirittura col riabilitare quella categoria d’impresa che è sembrata essere la sua bestia nera: le banche popolari!
E invece no: proprio sulle banche Renzi a Cernobbio ha nuovamente marcato la sua “differenza”. Nuovamente alludendo alle popolari come fonte di ogni nequizia. E poi suscitando un vespaio per aver detto una grande verità: che cioè in Italia nel settore del credito ci sono decine e decine di migliaia di lavoratori di troppo. Ma andiamo con ordine.
Il premier si è nuovamente accreditato il merito della riforma delle popolari, come se ne avesse azzerato l’empia stirpe. Cosa nient’affatto vera: la sua riforma ha solo prescritto alle dieci popolari più grandi una conversione rapida in società per azioni, che probabilmente presto o tardi sarebbe arrivata comunque. E l’ha fatto quasi che le popolari siano le responsabili dei guai del sistema creditizio italiano, mentre tutte le statistiche dimostrano che quel comparto ha parametri migliori di quello costituito dalle banche in società per azioni. Non a caso, il presidente dell’Associazione tra le banche popolari, Corrado Sforza Fogliani, ha replicato duro: “Sulle Popolari bisognerebbe ricordare che sicuramente c’è stato qualche caso di cattiva gestione, ma che hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del nostro Paese tanto da rappresentare il 25% della raccolta bancaria e del credito erogato”. A questo proposito basta riguardare i dati patrimoniali degli impieghi relativi al primo semestre dell’anno in corso, caratterizzati da un flusso di nuovi finanziamenti alle piccole e medie imprese pari a per 15 miliardi di euro e alle famiglie per 6,5 miliardi di euro”.
I due più grandi dissesti bancari italiani degli ultimi cinquant’anni sono stati: quello di Capitalia, mai conclamato ma sostanziale, risoltosi poi nella pancia di Unicredit, che da allora soffre sui conti ed in Borsa; e quello del Montepaschi, in corso. Drammaticamente in corso: perché proprio in queste ore è emerso chiaramente che l’aumento di capitale da 5 miliardi ipotizzato da JpMorgan e Mediobanca, consulenti scelti dal Monte per rilanciare la banca, è troppo grande per essere accettato dal mercato, a fronte di un’azienda che capitalizza 6 o 700 milioni di euro e va ridotto, come lo stesso Davide Serra — il finanziere grande sostenitore di Renzi — proprio a Cernobbio si prodigava a spiegare a chiunque.
Ma c’è di più e c’è di peggio. Il premier ha approfittato di Cernobbio per dire la sacrosanta verità sugli imminenti esuberi bancari, una verità talmente amara da far male; tanto che all’indomani, mentre ormai lui era già atterrato in Cina, Palazzo Chigi ha voluto diramare una precisazione che non smentisce (meno male) un bel nulla. Cos’ha detto Renzi? Che “oggi ci sono 328mila dipendenti bancari in Italia, si tratta di un numero sproporzionato. Un numero così alto di filiali non ha senso in un mondo dove la banca è sullo smartphone. Da qui a dieci anni i dipendenti passeranno a 200mila se non a 150mila. Tante sedi chiuderanno e il volto stesso delle nostre città cambierà. Non ci sono alternative, questo è il futuro e i manager delle nostre banche dovranno adeguarsi”. E ha aggiunto che “le banche devono aggregarsi. Ci sono più poltrone e filiali che nel resto del mondo”.
Parola sacrosante. Cui ovviamente il sindacato bancario si è ribellato — chissà perché, visto che è il primo a sapere che sono veritiere — e ha minacciato lo sciopero generale. In realtà, di fronte all’ipotesi di perdere 15mila occupati all’anno in un settore che non ha la cassa integrazione, se l’Italia fosse un Paese serio da tempo i sindacati e l’Associazione bancaria avrebbero aperto un negoziato per capire dove trovare i soldi per riconvertire questo personale o ammortizzarne la disoccupazione. Invece, macché.
Poi Palazzo Chigi ha precisato: “Nessuna ipotesi di dimezzare i bancari entro dieci anni. Il governo si pone piuttosto l’obiettivo di ridurre i consigli d’amministrazione pleonastici e le loro poltrone, il ruolo della politica dentro le banche, le superconsulenze. Non vuole dimezzare i bancari, come ha scritto qualcuno”. Infatti: Renzi ha solo detto giustamente che si dimezzeranno di per sé…
In realtà, al di là di queste polemiche inconsistenti, e di quel tanto di vero o di eccessivo che c’è sia nelle parole di Renzi sia nella visione del problema che il governo ha dimostrato di avere, concentrando gli attacchi ingiustamente sulle popolari, una cosa è chiara: oggi, anche agli occhi dell’Europa, è come se la crisi italiana stesse definendosi sempre più come crisi bancaria. Non c’è solo il problema del Montepaschi, una banca con 27 miliardi di sofferenze lorde che non riesce a trovare credito sul mercato. Non ci sono solo gli esuberi.
Ci sono altri due problemi: uno europeo, ed è che l’Unione non darà mai più all’Italia l’autorizzazione che i governi Berlusconi e Monti persero l’occasione di ottenere, cioè ricapitalizzare le banche con i soldi pubblici, e questo le lascia in balìa delle sofferenze. Come se qualcuno, a Bruxelles ma soprattutto a Berlino, non attenda altro che un passo falso italiano sulle banche per infilare il Paese direttamente nell’orbita del potere della Troika, con una soluzione alla greca.
L’altro problema è che nelle nostre banche è in atto una discesa strutturale della redditività. Prestare denaro comporta oneri patrimoniali sempre maggiori e rende sempre meno; ed erogare servizi rende a sua volta pochissimo. Insomma, far soldi, per le banche — anche quelle sane — è sempre più difficile. E l’economia finisce come bloccata nei loro forzieri. Per quanto, paradossalmente, sia pur sempre lì che la gente mette i suoi soldi, confidando che siano al sicuro: 45 miliardi di depositi in più in un anno, patrimonializzati in banca anziché investiti in azienda o semplicemente spesi in consumi.
E’ come se nelle banche confluisse tutto il pessimismo che circola nel Paese sul futuro. E le banche non sono la sede giusta per dissipare questo pessimismo, anzi: ne sono semmai una delle più vere giustificazioni.
Al netto delle opinioni sull’operato del governo Renzi e sullo stesso modo di agire personale del premier, cosa potrebbe fare la politica per smuovere le acque stagnanti attorno all’economia italiana — quelle che tengono fermo il Pil e inchiodata la crescita — se il crocevia del denaro, le banche, è come transennato per interminabili lavori in corso?