Una precisazione: non sono un cliente di Apple poiché utilizzo da sempre sistemi operativi Windows (ora al numero dieci), non posseggo un high phone (ma un blackberry classics) ed impiego raramente l’iPad Apple avuto in dono cinque anni fa a ragione delle difficoltà di scrivere con il touch screen. Quindi non ho interessi acquisiti e, quindi, neanche conflitti di interessi.
Voglio anche precisare che la multa che la Commissione Europea vuole imporre ad Apple, per quanto elevata in valore assoluto, non determinerà il futuro dell’azienda di Cupertino in quanto inferiore al 7% del fatturato consolidato dall’insieme di società del gruppo nel 2015. Per questo motivo, i mercati hanno reagito debolmente ad una notizia sparata nelle prime pagine di tutti i giornali ed oggetto di un duro editoriale (nei confronti della tassazione delle imprese Usa che operano all’estero) del New York Times.
Tuttavia, la “questione Apple” riguarda tutti noi, specialmente tutti noi europei, per ragioni sia di breve e medio periodo (le eventuali implicazioni su investimenti in Europa di imprese americane e fuga verso altri lidi di capitali europei) ma per un aspetto poco notato (i poteri, al tempo stesso, di legislatore in materia tributaria e di giudice tributario che, ancora una volta, la Commissione Europea dimostra di volere avere). Poteri molto più estesi, anzi tentacolari, che neanche negli Stati Uniti (una federazione che ha circa 250 anni di storia, un’unica lingua ed una cultura comune), le Agenzie federali (come l’Internal Revenue Service) hanno mai concepito di poter avere.
Negli Stati Uniti c’è una netta distinzione tra imposizione federale ed imposizione dei singoli Stati. Ho vissuto quindici anni a Washington, abitando nel Distretto di Colombia (dove l’imposizione sulla casa è relativamente bassa) ma ai confini con il Maryland e la Virginia, in modo di poter scegliere bene dove fare gli acquisti poiché in uno dei due Stati era conveniente fare la spesa di generi alimentari e nell’altro di capi di abbigliamento. Il Premio Nobel John Douglas North ama ricordare che dopo la guerra di secessione, gli Stati confederati avevano perso il 70% del Pil, che solo nel 1900 tornarono a livelli di Pil del 1840 e che oggi hanno redditi più alti degli Stati del Nord grazie ad una politica di tassazione di vantaggio attuata con determinazione (e con il supporto del resto dell’Unione); tale politica ha inciso sugli investimenti di aziende, specialmente ad alta tecnologia.
Ogni volta che l’Italia ha sommessamente suggerito qualcosa di analogo per il Mezzogiorno siamo stati esposti a critiche, e non tanto velate intimidazioni, dai mandarini di Bruxelles.
Non ho né la strumentazione né i dati per comprendere se ed in qual misura la tassazione dell’Irlanda su Apple provochi distorsioni alla concorrenza, alla localizzazione degli investimenti, ed agli scambi internazionali. In mancanza di un trattato internazionale che renda uniformi i sistemi tributari di tutto il mondo (un incubo da Dottor Stranamore che sbriciolerebbe il principio di base della democrazia, no taxation without representation), se la Commissione Europea può dimostrato trade diversions si rivolga all’Organizzazione Internazionale del Commercio i cui organi sono preposti a giudicare in questa materia.
In effetti, nella “questione Apple” leggo non tanto una complessa controversia tributaria (che in ogni caso ha già provocato danni all’Europa minandone la certezza del diritto) ma un ulteriore tentativo della Commissione di assumere connotazioni politiche e giurisdizionali che ha sempre cercato di avere e che sono oggi più lontane in un’Europa della cooperazione intergovernativa che si profila all’orizzonte).
L’Italia non è direttamente coinvolta nella controversia. Ma se il Governo vuole essere accanto a chi rischia di restare indietro, potrebbe però porre, con forza, la questione della “fiscalità di vantaggio” per quel Mezzogiorno che minaccia di diventare uno spopolato deserto produttivo.