Che brutto vedere: Roberto Perotti, professore ordinario di economia politica alla Bocconi ed ex consigliere del premier Matteo Renzi sulla riduzione della spesa pubblica, che spara a zero contro il governo in mezza pagina d’intervista al Corriere della Sera; e l’attuale commissario alla spending review (cioè alla revisione della spesa pubblica, con cui Perotti ha collaborato) Yoram Gutgeld — autorevole consulente strategico in McKinsey — che in una lettera al medesimo Corriere, all’indomani, risponde per le rime.
Che brutto vedere, a prescindere dal merito: perché non vale neanche la pena di entrare nel merito delle critiche e delle controcritiche. Ciò che rileva, per il cittadino “comune”, è constatare come due personaggi di indubbie competenze, per decenni estranei alla lotta politica, si ritrovino nel giro di un anno dal lavorare sulla stessa barca al dissentire su tutto, ed entrambi sventolando dati e numeri.
E’ la disfatta del tecnicismo, il de-profundis per la possibilità che, almeno, ci salvino i tecnici.
In sostanza, Perotti dice che la spesa pubblica effettivamente tagliata è assai meno di quel che si poteva tagliare ed è stata comunque più che pareggiata da nuove spese decise dal governo. A scopi elettoralistici, lascia supporre. Gutgeld al contrario ridefinisce i risultati, indicandoli come molto positivi, garantisce ancor migliori effetti a lungo termine e dunque respinge ogni accusa al mittente.
In realtà, hanno un po’ di ragione tutti e due. Gutgeld sta facendo quel poco che può fare, come poco è stato quel che ha fatto Carlo Cottarelli — un altro commissario che se n’è andato un po’ in cagnesco con Renzi — e ancor prima un altro commissario autorevole come Enrico Bondi.
In realtà, il moloch della spesa pubblica non si può intaccare con leggi ordinarie. E in questo senso la tentazione di addebitare tutte le colpe alla normativa attuale, come prevista dalla Costituzione vigente, è forte, soprattutto perché è chiaro che il grosso degli sperperi si annida nei disservizi e nelle insipienze, spesso truffaldine, degli enti locali.
Basti considerare un dato: le due Regioni leader in Italia per qualità e quantità del servizio sanitario erogato, meta di un costante pellegrinaggio medico da tutto il resto del Paese e dall’estero, sono Veneto e Lombardia. Ebbene, se tutte le altre Regioni fossero costrette ad acquistare beni e servizi sanitari ai prezzi che pagano Veneto e Lombardia, le casse pubbliche risparmierebbero solo sulla sanità tra i 15 e i 20 miliardi di euro all’anno: in pratica, tutto il valore possibile della “flessibilità” che stiamo elemosinando all’Europa. Perché questo non succede? C’entra davvero la Costituzione? E quindi davvero, cambiandola, tra gli altri problemi si risolverebbe anche questo, come predica il governo?
E’ lecito dubitarne. La verità è che tutti i partiti di potere si accordarono, a suo tempo, nel definire come “costi standard” cui le Regioni virtuose dovevano allinearsi per non essere “bastonate” dalle regole del patto di stabilità interno non i costi sostenuti dalle Regioni più efficienti ma quelli medi. Come se in una classe un insegnate anziché additare ai propri allievi come modello lo studente che ha la media del 9 dicesse: “Imitate quello che ha la media del 6+”. Una follia, ma è così. Questa follia dei costi standard gonfiati potrebbe essere sanata con una legge ordinaria, a perimetro costituzionale invariato.
Renzi ha sempre detto di voler eliminare quest’anomalia. Ma mentre, soprattutto nel primo anno del suo governo, ha dimostrato di aver voglia e capacità di smantellare anche lobby molto forti — si pensi al bizzarro attacco alle Camere di commercio, tra i pochi enti misti a funzionare bene, che ne ha dimezzato i fondi, o alle accuse radicali e poco motivate alle banche popolari, cui ha fatto seguito una riforma forzosa — sull’attacco alle spese pazze delle Regioni la sua forza d’urto si è… ammosciata. Forse nessun potere centrale osa discutere quello periferico perché è sul territorio che si governano davvero i voti della gente…
Per carità, Renzi ha solo seguito il solco del governo Monti, senza parlare del governo Letta, che manco ci ha provato. Anche per Monti, il vero flop è stato la spending review. L’unica cosa che ha funzionato sono le gare on-line per gli acquisti di beni e servizi, ma solo negli ambiti stretti in cui sono state applicate: per il resto, niente. La spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi è rimasta, da allora, prevalentemente arbitraria, sottratta per i cinque sesti al “presidio” della Consip che filtra solo 40 miliardi di euro contro i 240 del totale gestito dalle amministrazioni centrali dello Stato (quindi non dalle Regioni, pur vituperabili). Calcolando che dovunque siano arrivate le gare on-line s’è maturato un risparmio di circa l’11%, significa che ci sarebbero 20 miliardi di euro da salvare che restano invece sprecati per mancanza di volontà politica.
La Corte dei conti ha calcolato che in Italia si sprecano 60 miliardi di spesa pubblica, tra costi gonfiati negli acquisti, fondi perduti e altre voci fuori controllo delle 7mila società ex-municipalizzate che nessuno governa. E che, speriamo, stanno per essere dimezzate. Su questo denaro prospera la casta parassitaria dei burocrati.
Effettivamente è la periferia dello Stato — i 9mila Comuni, le 20 Regioni, le 108 Provincie — a costituire il vero colabrodo dei soldi pubblici. La stessa rete di ciechi e di sordi che ha reso possibile la stupefacente anomalia dei due milioni di “case fantasma”, per incapacità di controllo del territorio. Ci vorrebbe un'”Agenzia delle uscite” che fronteggiasse quella delle entrate, che riaccentrasse i controlli, ma non se ne parla nemmeno.