La cosa immagino non stupisca nessuno, visto che – al netto del periodo della decontribuzione – le dinamiche occupazionali italiane sono sempre state da zero virgola, al netto dell’abuso di voucher, senza i quali la situazione sarebbe stata ancora peggiore. È di ieri la notizia che a novembre il tasso di disoccupazione è salito ancora: l’Istat ha certificato un +0,2% su base mensile all’11,9%, il livello massimo da giugno 2015. L’esercito dei disoccupati è salito a quota 3 milioni e 89 mila: l’Istat ha precisato che la stima dei disoccupati nel mese è risultata in aumento dell’1,9%, +57 mila unità e che questo aumento ha interessato entrambe le componenti di genere e le diverse classi di età, a eccezione degli ultracinquantenni. Ovvero, di chi accetta qualsiasi cosa e qualunque condizione, pur di cercare di arrivare alla pensione, maturando contributi come può per non dover andare in banca a chiedere un mutuo per l’Ape. Ma dato ancora peggiore è quello che vede in aumento a novembre anche la disoccupazione giovanile dal 37,6% del mese precedente al 39,4%, ai massimi da ottobre 2015. L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è risultata pari al 10,6%, cioè poco più di un giovane su 10 è disoccupato, con un aumento dello 0,7% su ottobre. 



Per il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, preoccupa la situazione dell’occupazione giovanile, «per cui alla diminuzione del tasso di inattività tra i giovani corrisponde solo un aumento della disoccupazione». In ogni caso «rispetto al mese precedente l’occupazione, con un lieve aumento, si mantiene sostanzialmente stabile. All’aumento dei disoccupati corrisponde una più consistente diminuzione degli inattivi, segno che cresce il numero delle persone alla ricerca attiva di lavoro». E di un voucher. Ma, al netto del fatto che gli inattivi fanno percentuale ma la loro ridiscesa nel computo totale non significa che trovino davvero lavoro ma solo che ci provano, ironia (amara) vuole che in quasi contemporanea con la pubblicazione del dato Istat, Fiat Chrysler Automobile abbia annunciato, in occasione dell’apertura del salone dell’auto di Detroit, un investimento da 1 miliardo di dollari per riconvertire e modernizzare due impianti del Midwest degli Stati Uniti dove saranno creati 2mila nuovi posti di lavoro. Insomma, come sempre ha fatto, Fiat anche Oltreoceano gioca d’anticipo sulla politica, posizionandosi al meglio rispetto all’impianto protezionistico annunciato dal presidente eletto, Donald Trump, il quale ha minacciato dazi e penalità per chi andrà a produrre fuori dagli Stati Uniti. 



Trump ha infatti lanciato un’offensiva contro le case che costruiscono vetture in Messico per poi venderle negli Usa, minacciando di introdurre “dazi altissimi”. Nel mirino dei suoi tweet sono finite Ford (che avrebbe rinunciato a un investimento programmato di 1,6 miliardi di dollari sempre in Messico), General Motors e Toyota. Detto fatto, Fiat si allinea subito, sentendo profumo di incentivi. L’amministratore delegato del gruppo, Sergio, Marchionne, ha spiegato in una nota che il nuovo investimento negli Usa risponde allo spostamento della domanda verso Suv, truck e pick up: «Continuiamo a rafforzare gli Stati Uniti come hub manifatturiero globale per i brand premium del gruppo. Lo stanziamento, nell’arco di tre anni, riguarderà gli stabilimenti FCA di Warren, nel Michigan, dove saranno prodotte la Jeep Wagoneer e la Grand Wagoneer, e di Toledo, in Ohio, dove sarà realizzato il nuovo pick up Jeep. I piani di produzione saranno soggetti alla negoziazione e all’approvazione finale di incentivi statali e locali». Et voilà, quando mai Fiat prova a fare impresa stando sul mercato e non sfruttando incentivi, bonus, rottamazioni, agevolazioni e chi più ne ha, più ne metta? 



Ma non basta, perché sull’onda lunga dell’impegno di Barack Obama per salvare il comparto automobilistico Usa, già lo scorso luglio FCA aveva comunicato un investimento da 1,48 miliardi di dollari nell’impianto di assemblaggio di Sterling Heights, nel Michigan, dedicato alla prossima generazione del Ram e di oltre 1 miliardo per le sue fabbriche di Belvidere, in Illinois, e di Toledo, in Ohio, incentrato sul Suv a marchio Jeep. «Ulteriore beneficio dell’investimento a Warren è che consente all’impianto di produrre il truck Ram heavy duty, attualmente realizzato in Messico», ha sottolineato la casa del Lingotto: sembra una dichiarazione d’amore a Donald Trump prima ancora che poggi le terga sulla sedia di Pennsylvania Avenue. Ma non pensiate che sia solo FCA a fare la “furbetta”. Dopo il colosso del Lingotto, anche Volvo ha confermato il suo interesse prioritario per il mercato Usa e nordamericano e il suo impegno a investire negli States. Lo aveva deciso nel 2014, ben prima delle elezioni vinte da Donald Trump, ma il fatto che abbia sottolineato di nuovo ieri non sembra davvero suonare come una notizia sgradita per il presidente eletto, a pochi giorni dal suo insediamento previsto per il 20 gennaio. 

A spiegare la strategia di Volvo, lo storico marchio svedese che è di proprietà della Geely cinese, ma conservando totale libertà di scelte di investimenti (strategia di auto ecologiche del futuro e gamma di modelli offerti sul mercato globale), è stato l’amministratore delegato in persona, Hakan Samuelsson, anch’egli dal salone di Detroit: «È stato nel 2014 che abbiamo deciso di costruire un impianto di produzione a Charleston, South Carolina. Darà lavoro a circa duemila persone e avrà una capacità produttiva di centomila auto l’anno». Evviva, anche i cinesi – che formalmente fanno la guerra a Trump sull’integrità territoriale di Taiwan e sul protezionismo – sono pronti a beneficiare dei sussidi che arriveranno a pioggia. Il primo grafico a fondo pagina ci mostra come il settore automobilistico abbia garantito la ripresa della produzione manifatturiera Usa, sintomo che Barack Obama aveva capito dove era necessario intervenire per pompare la narrativa del sogno americano post-2008. Ma attenzione, perché il dato reso noto lo scorso 7 novembre dalla Fed e relativo al credito al consumo negli Usa nel mese di settembre 2016 ci conferma quale sia l’unico driver di quel mercato, al netto della ratio tra scorte e vendite che ormai si avvicina a picchi pre-recessivi: il credito privato totale è salito a 19,3 miliardi contro i 18 miliardi attesi. 

Certo, è meno dei 26,8 miliardi di agosto, ma occorre vedere le componenti: il debito legato a carte di credito e revolving è salito di 4,2 miliardi di dollari e, con questo numero, il totale per la categoria ha quasi raggiunto il picco di 1,02 triliardi toccato durante la bolla creditizia. Insomma, una nazione e un’economia che campano sul debito. Ma ecco il dato più interessante: se infatti il debito studentesco è salito al picco di 1,396 triliardi di dollari, quello per l’acquisto di automobili ha toccato il record di tutti i tempi a 1,098 triliardi di dollari. E perché vi dico che nella corsa al mercato Usa c’è tutto tranne che libero mercato? Per quello che ci dice il secondo grafico, ovvero che la fonte primaria di credito al consumo rimane il governo statunitense. (se non riuscite a ingrandire il grafico, digitate in qualsiasi motore di ricerca di titolo e potrete vederlo allargabile). 

Insomma, governo e agenzie federali permettono all’enorme truffa del debito di tenere alte le valutazioni e la produzione del mercato automobilistico, così come i tassi a zero della Fed hanno incentivato i buybacks azionari, tenendo alte le valutazioni dei titoli. Ora, il mio governo ideale, stante la situazione, convocherebbe immediatamente i vertici di FCA e, dopo essersi complimentato per l’avventura statunitense, elencherebbe i miliardi di soldi pubblici italiani ottenuti da Fiat dal secondo dopoguerra a oggi, sotto forma di ammortizzatori sociali, bonus, incentivi, agevolazioni e regali politici tipo l’Alfa Romeo di Arese. A quel punto, in nome del protezionismo alla Donald Trump che pare tanto piacere a Fiat Chrysler Automobile, imporrebbe dazi sulla vendite delle sue automobili in Italia. Socializzare le perdite e privatizzare gli utili, salvo poi mandare tutti a quel Paese per emigrare Oltreoceano a livello di produzione e in Olanda per la sede fiscale, non si chiama libero mercato o impresa. Si chiama statalismo allo stato puro, il classico esempio di capitalismo di relazione. 

Ma c’è un problema più grave dell’atteggiamento di FCA e dei dati Istat in contrasto: c’è il fatto che a fronte del risorgente protezionismo Usa e di quello ormai conclamato della Cina (con dumping salariale e monetario, unito all’export continuo di deflazione sui mercati esteri a causa della sovra-produzione di materie prime), l’Europa è completamente sguarnita di difese di fronte alla guerra commerciale ed economica che rischia di esplodere. Non ha una voce, non ha una direzione e solo a parlare di dazi esplodono attacchi di orticaria: attenzione, rischiamo di trovarci su un ring a combattere con entrambe le mani legate. E non con il tasso di disoccupazione tedesco al 5% e il surplus commerciale da record, ma con la disoccupazione alle stelle e la crescita pressoché ancora a zero, oltretutto a forte rischio di instabilità politica in tempi brevi. Parlare di protezionismo, a questo punto, equivale a parlare di autodifesa. Al netto dei difensori a oltranza dei benefici della globalizzazione.