Si assiste nel mondo a uno spettacolo che è non nuovo, ma certo sempre più sconcertante: l’ignoranza abissale con cui si deve fare i conti in presenza di qualsivoglia spazio di argomentazione pubblica. Tali spazi sono oggi immensi per via delle possibilità tecnologiche delle reti non fisse di comunicazione, ma ciò che da tale immensità promana è la diffusione dell’imbecillità e del conformismo.



La vittoria di Trump ha sdoganato un possibile dibattito sul protezionismo selettivo come politica economica benefica e sull’ampliamento della domanda interna come politica economica benevolente rispetto alla crescita economica e alla coesione sociale da riconquistare. Ebbene: nello spazio pubblico oggi attivo della via scientifica per rifondare tali prospettive, invece che continuare con un borbottare continuo, non vi è traccia. Il deserto neoliberista è in primo luogo un deserto di conoscenza.



Pensiamo al rallentamento della crescita della produttività: essa promana sicuramente da una contrazione della domanda. Se peggiorano le aspettative delle imprese sulla domanda aggregata, esse non incentivano la ricerca e l’adozione di nuove tecnologie, perché non prevedono un aumento della solvibilità della domanda e quindi la produttività rallenta. Un tempo professori non liberisti ci insegnavano che esisteva la cosiddetta legge di Verdoorn(del 1944), che asseriva che vi è una relazione tra la crescita dell’output e la produttività del lavoro. Nel 1966 Nicholas Kaldor dimostrò che l’aumento della domanda determina un aumento della produttività del lavoro grazie alle economie di scala, al saper fare dei lavoratori, alla specializzazione produttiva e al progresso tecnico endogeno. Paolo Sylos Labini diede un contributo essenziale allo sviluppo di questa teoria



Tutto il contrario di quanto le politiche economiche neoliberiste ed eurocratiche hanno imposto all’Europa e al mondo in questi ultimi trent’anni. E la stessa considerazione si impone rispetto al commercio mondiale, anch’esso un tema sollevato potentemente dal più famoso rappresentante del popolo degli abissi, ossia il neo eletto Presidente Usa Donald Trump, il quale, in assenza della sinistra politica divenuta eurocratica, oggi rappresenta le classi povere e umiliate del pianeta, secondo quell’inversione della rappresentanza da me già studiata nel libro dedicato all’italico prototipo dell’inversione suddetta, ossia Mario Monti.

Da anni, del resto, nuove politiche di protezionismo e di controllo politico sull’economia stanno crescendo. Il tema interessante è quello che ci fa dire che oggi la limitazione dei movimenti di capitali e di merci è materia di azione politica da parte delle forze di destra neo-nazionaliste europee con molta forza e che non è il caso di ricordare qui per un’ennesima volta.

Il ritorno a un protezionismo selettivo è nei fatti: la Commissione europea registra con continuità nuove misure protezionistiche e Cina, India, Brasile, Russia e Stati Uniti hanno da tempo introdotto introdotto restrizioni potenti al commercio mondiale. Solo l’Unione europea nel suo complesso resiste ostinatamente all’introduzione di controlli sui movimenti di capitali e di merci e questo perché la Germania è la sola a trarre dal libero scambio grandi vantaggi. 

I gruppi d’interesse che sviluppano il più potente potere situazionale di fatto in Germania sono paradossalmente quelli che più temono che con la moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la loro egemonia, e che si creino limiti alla libera circolazione di capitali e di merci in Europa. Del resto l’Europa unita ha insegnato al mondo a tagliare per via amministrativa le capacità produttive lasciando invariate le quote di mercato, pianificando i volumi di produzione mentre nel contempo si alimenta la piena libertà di trasferimento dei capitali. E tutto questo accade dimenticando la lezione di grandi economisti come Samuelson che insegnavano che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea solo problemi: negli anni Cinquanta e Sessanta i controlli sui capitali e sulle merci erano assai forti in presenza dello sviluppo, dell’occupazione e di una distribuzione del reddito che fu potentissima a favore delle classi di reddito meno abbienti. 

Del resto oggi accade ciò che accadde negli anni precedenti la Prima guerra mondiale: fu in presenza del libero scambio mondiale dispiegato che scoppiarono le crisi economiche più gravi e sorsero i movimenti di destra più violenti. La stessa cosa che accadde con crisi post bellica e la grande crisi del 1929. Non vi è nessuna inferenza scientifica deterministica tra libero scambio e crescita, così come non vi è tra protezionismo e crisi. Tutte le situazioni storiche vanno studiate empiricamente e non è possibile dettare una legge universale astratta come accade nei modelli neoclassici oggi in voga. La politica ha sempre l’ultima parola. 

La Germania impone nella zona euro depressione, disoccupazione e crisi con la conseguente trasformazione delle nazioni del Sud Europa in deserti produttivi che forniscono forza lavoro con bassi salari alle nazioni dell’Europa teutonica. Le politiche di libero scambio sono destinate a terminare, ma diverso sarà il modello con cui ciò avverrà: o attraverso una trasformazione delle politiche economiche europee concordate, come sta accadendo con la Brexit, oppure attraverso un dolorosissimo processo di crisi sociale ed economica endemica che è già alle porte e che tutti travolgerà.