La sostanza conta, anzi è l’unica cosa che conta, e la sostanza è drammatica: con il suo milione di euro di perdite (abbondanti) al giorno, l’Alitalia è arrivata a un nuovo capolinea della sua travagliata esistenza. Domenico Cempella, l’ultimo amministratore delegato della (ex) compagnia di bandiera ad aver firmato nel ’97 un bilancio in attivo, dimessosi (pardon, cacciato ingiustamente) nel Duemila per non aver potuto concludere per i troppi “niet” politici quell’accordo con la Klm che tanti guai peggiori avrebbe risparmiato all’Italia, ha pubblicato proprio in questi giorni un suo saggio sull'”Alitalia che vola via” e, leggendolo, si capisce che l’azienda da anni aveva il destino segnato. 



Ma ora questa ennesima drammatica fase – che si sostanzierà in altre migliaia di tagli ai posti di lavoro – sarà presto concretizzata in un nuovo piano industriale che i padroni-non-padroni di Etihad (essendo arabi, per legge europea, alla faccia della globalizzazione, non possono detenere più del 49% della compagnia!) stanno ultimando. E le lacrime e il sangue ricadranno appunto, inevitabilmente, sui lavoratori.



Proprio quello che ieri il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha detto a gran voce che non deve accadere. Con un empito “socialista” (così lo definirebbero gli gnomi della JpMorgan amici dell’ex premier Renzi) che ha colpito tutti: “Mi pare che la situazione di Alitalia dimostri che l’azienda sia stata gestita oggettivamente male. Il fatto che la cattiva gestione ricada sui lavoratori è una cosa inaccettabile. Alitalia è un’azienda totalmente privata che ha un problema molto significativo di gestione. Ha cominciato a parlare di esuberi e il governo l’ha convocata”. Infatti, tre giorni fa, incontrando il vertice della compagnia, i ministri Calenda e Delrio hanno chiesto, a nome del governo, di mettere a punto un piano industriale, prima di parlare di possibili esuberi: “Nessuna impresa si salva tagliando soltanto il personale. Se l’idea è quella di dire che il problema si risolve solo tagliando il costo delle persone, vuol dire che è un’azienda che non funziona”.



E già questo ha del sorprendente: perché è vero, verissimo, sacrosanto, ma detto da Calenda – un manager competente e di successo, nella vita precedente a quella politica, ma di orientamento liberare – suona nuovo. Quel che però ha sorpreso ancora di più è stato il tono, piccato, della replica del presidente di Alitalia, Luca Cordero Montezemolo, designato nel ruolo proprio dagli arabi (anche dalle banche italiane, in verità) che aveva convinto lui (ahiloro) a investire in Alitalia: “È fuori luogo qualsiasi tipo di polemica. Quando si parla di Alitalia non bisogna parlare solo del management, ma di quanto fatto anche dagli azionisti già una volta e rifatto oggi, sia da quelli italiani che da quelli arabi. Alitalia non è una compagnia di bandiera, malgrado siamo un Paese che vive di export e turismo e, quindi, una compagnia aerea è importantissima. Ma quando poi Alitalia giustamente taglia rotte che sono clamorosamente in perdita si apre come uno scandalo: dobbiamo cercare tutti il modo di trovare una soluzione per intervenire”.

Tutti, dice Montezemolo. E dunque respinge i sacrosanti addebiti esclusivi di responsabilità fattigli da Calenda. Clamoroso: non perché nel merito abbia ragione, ma perché questa polemica segna una frattura tra lui e Calenda, visto che il ministro, dell’ex-pupillo dell’Avvocato Agnelli è stato dapprima, in Ferrari, il responsabile dei rapporti con la clientela (cioè in pratica il capo dei venditori di altissimo bordo dell’azienda), poi in Confindustria il principale collaboratore e poi ancora l’organizzatore di Italia Futura, l’abortito embrione del partito di Montezemolo dalle cui ceneri nacque la montiana Scelta Civica. Montezemolo si è proprio inviperito con Calenda perché se perfino lui, che considera una sua creatura, gliene canta quattro, è un segno di imminente rottamazione. Entro tre settimane, ha detto, “ci si mette al tavolo con il governo, con il sindacato, perché siamo sulla stessa barca, con i manager e con gli azionisti per fare ognuno quello che si deve fare”. Una chiamata in correità che il governo Gentiloni ha tutto il diritto di respingere.

Ora, il punto è che Montezemolo non è un vero manager gestionale, doveva garantire le relazioni istituzionali della compagnia col sistema-Paese – gli aeroporti, in particolare – e con tutta evidenza non c’è riuscito. Calenda s’è stufato e non vuol controfirmare il flop. Tutto qui. L’allievo che ha ampiamente e da tempo superato il maestro non ha avuto più timori reverenziali e gli ha dato il fatto suo. Confermandosi un uomo indipendente, come aveva già dimostrato di essere, dapprima da Monti e poi da Renzi.

Fine del siparietto personale: è chiaro che un nuovo piano industriale non potrà che transitare dai tagli e da un’aggregazione, che gli arabi cercheranno di costruire a propria immagine e convenienza, ammesso che ci riescano. E saranno comunque lacrime e sangue. Che tutto questo passi in cavalleria senza intaccare anche il mito di Montezemolo, per chi lo coltiva ancora, sarebbe francamente troppo: per questo Calenda ha ragione.