“La fiducia è un bene pubblico caratterizzata da una chiara asimmetria: molto facile distruggerla molto difficile ricostruirla”. Così il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan durante l’audizione parlamentare dedicata al primo esame del decreto salva-banche. Difficile dargli torto. Anche se è altrettanto difficile seguire Padoan quando aggiunge che “nel dibattitto che si è sviluppato si è a volte gettato discredito sull’intero settore bancario italiano alimentando anche all’estero una percezione sbagliata e immotivata. Ritengo sia un atteggiamento dannoso che mette a repentaglio la funzionalità in un settore vitale per l’economia e la crescita”.
Certo, è il caso di diffidare delle ricostruzioni pretestuose, motivate da astio politico e da un rancore generico, figlio del populismo e non della ragione. Ma, probabilmente, ad alimentare la “percezione sbagliata e immotivata” sulla governance del sistema del credito del Bel Paese è stato assai di più il cumulo di menzogne sui presunti “cavalieri bianchi” (George Soros, il Qatar, persino i cinesi) pronti a correre in soccorso di Monte dei Paschi. Purtroppo solo nell’immaginario alimentato dai soliti ben informati, spesso vicini alle stanze del potere. Per non parlare dei piani scritti sulla sabbia che offrivano, a fonte dell’investimento nel fondo Atlante, un rendimento del 6% garantito dalla valorizzazione dei non performing loans: un’altra favola metropolitana. O la vulgata per cui le banche italiane, nonostante la crisi, rappresentano una realtà industriale solida. Difficile sostenerlo, se si pensa al numero di sportelli ancora attivi, gli investimenti necessari per tenere il passo della concorrenza senza infliggere alla clientela, già stressata costi troppo elevati.
Gli shock di questi anni, non solo Monte dei Paschi, hanno profondamente modificato il rapporto degli italiani con la banca, come dimostra per esempio il boom del risparmio gestito. E poi c’è banca e banca: Intesa gode senz’altro di buona salute, così come un nucleo duro di istituti (Ubi, Unicredit, il nascente Banco Bpm e altri ancora). Ma che dire di tanti istituti, di piccole e medie dimensioni, per anni strumento della politica e delle massonerie locali, investite da crisi altrettanto gravi, zavorrati da crediti inesigibili e sofferenze, magari ancora classificati come incagli?
La fiducia, insomma, rischia di poggiare sulla sabbia se non si cambia registro, con una drastica operazione verità. Il momento sembra propizio. Anzi, probabilmente irripetibile. Il miglioramento della congiuntura industriale è anche un’occasione per migliorare la qualità degli impieghi. Intanto la massa delle sofferenze ha smesso di crescere, anzi segnala una piccola discesa (da 200 a 198 miliardi lordi). La Bce garantisce, nonostante i mugugni tedeschi, ancora nove mesi almeno di Quantitative easing (seppur in calo di 20 miliardi al mese). Ancora più importanti del settore: l’avvio del risanamento di Monte dei Paschi, con un sacrificio di 6,6 miliardi (4,2 a carico dello Stato); il decollo positivo del matrimonio tra Bpm e Banco Popolare; l’approvazione con una maggioranza bulgara dell’aumento di capitale di Unicredit; l’acquisto da parte di Ubi di tre delle quattro good banks, dopo una lunga gestazione. Ci sono, dunque, motivi per sperare e nutrire di nuovo la fiducia auspicata da Padoan. Cerchiamo di non buttarla via.
Per questo non dimentichiamo che:
1) Il deal con cui Ubi ha acquisito le good banks è stato reso possibile da una nuova. preventiva pulizia delle sofferenze per 2,2 miliardi dei conti degli istituti salvati poco più di un anno fa. Ovvero delle due l’una: a) all’epoca vennero avanzate stime troppo ottimistiche per non dover pagare il conto, in termini di accantonamenti, tutto in una volta; b) la congiuntura delle aziende è peggiorata in maniera drammatica, sotto la pressione del calo dei depositi e del business più profittevole. In ogni caso, la situazione, anche in altre banche a rischio, è probabilmente peggiore di quanto non sia finora apparso.
2) Lo stesso fenomeno si è senz’altro verificato in Monte Paschi dove, alla sostanziale inerzia sul fronte del recupero dei crediti (che pure ha impegnato in esercito di 700 addetti) ha corrisposto una caduta verticale della raccolta. C’è da domandarsi se non si sarebbe potuta evitare l’emorragia con un comportamento più coraggioso. Perché i vertici di Mps, a partire da Fabrizio Viola, hanno dichiarato a più riprese fino all’estate compresa, che la situazione era in via di miglioramento? Non sarebbe stato più onesto, soprattutto nei confronti di quegli obbligazionisti che fino all’ultimo si è cercato di coinvolgere in una tardiva operazione sul capitale, raccontare come stavano le cose?
3) A fronte dei piani immaginifici e immaginari elaborati dall’establishment, attribuendo valutazioni irrealistiche ai non performing loans, non si può non apprezzare la strategia che Jean Pierre Mustier ha applicato a Unicredit: le vendite necessarie sono state effettuate nei tempi giusti, evitando gli effetti nefasti del referendum; gli obiettivi del piano al 2019 sono conservativi ma realistici e perciò apprezzati dal mercato; le esigenze di capitale sono commisurate alle necessità dell’azienda e non degli azionisti. Una felice novità: quante scelte sbagliate, da Mps a Unicredit, sono state effettuate per compiacere azionisti affamati di dividendi ma poveri di capitali?
4) E così via. Di questo e di tanto altro c’è bisogno per convertire il sistema bancario da strumento di potere per pochi soci (spesso sostenuti dai capitali altrui) in imprese profittevoli. Nel frattempo, ben venga la punizione dei colpevoli, compresi i debitori “allegri” e privilegiati, assieme agli eventuali amministratori disonesti. Ma bando alle fesserie: la crisi delle banche ha origini sistemiche interne e internazionali, ma di sicuro non è frutto dei “soliti quattro ladri”: non a caso ad avallare questa tesi è l’Abi, che tende a far passare le banche come vittime e non come protagoniste, per inettitudine e viltà dei propri leader, corresponsabili del disastro.