Dunque l’agenzia di rating canadese Dbrs, che fino a ieri era stata l’ultima a riconoscere almeno una “A” nella valutazione del merito di credito dei titoli di Stato italiani, li ha declassati a “B”, allineando in questo modo il proprio giudizio a quello delle altre tre agenzie internazionali del settore: Moody’s, Standard and Poor’s e Fitch. Diciamo subito due cose: innanzitutto, che questo declassamento, e qui hanno ragione incredibilmente il governo italiano e la Banca d’Italia, non cambia assolutamente niente di sostanziale, nel senso che ci trova già nella palta fino al collo, e non peggiora la situazione; e poi che, osservata dal Canada, la situazione italiana poteva meritare ben di peggio, la serie C o la serie promozione, altro che B.



Perché? Ma come, perché? Per favore, torniamo ai fondamentali. I quali, a proposito del Canada, ripetono da anni un mantra, un luogo comune molto eloquente: il Canada ha un’estensione di foreste di oltre 400.000 km quadrati e ha un corpo forestale che conta, circa, 4.200 addetti. La Calabria ha una estensione di foreste pari a, circa, 6.500 km quadrati e ha un numero di addetti a “interventi straordinari di competenza regionale nei settori della silvicoltura, della tutela del patrimonio forestale, eecc.”, pari a, circa 10.500 unità. Cosa potrebbe esserci di più lontano, di più sideralmente distante, tra due realtà politico-sociali come Italia e Canada? Se si esclude l’italianizzazione di Toronto, che contende a Buenos Aires il primato di capitale straniera più pervasa dall’emigrazione italiana, i due Paesi non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Che un’agenzia di rating canadese, che peraltro conta pochissimo rispetto alle consorelle maggiori, emetta o non emetta una promozione o un declassamento è quasi surreale. E come per un astemio discettare di qualità di un Barolo. O per un alcolista analizzare le qualità organolettiche di un’acqua minerale. La competenza economica, le capacità di calcolo finanziario, i sistemi analitici che “girano” nei computer dei finanzieri di questo o quel Paese non cancellano la sensibilità culturale di chi li adopera, e che nel caso canadese traspare nitidamente, come vedremo, dalla puerilità dei commenti con cui questo declassamento viene accompagnato.



Ma vediamo, appunto più seriamente, perché questo declassamento è più simbolico che altro e non cambierà nulla. Perché, come acutamente osserva Federico Fubini sul Corriere della Sera, già da molti mesi “i prezzi dei derivati di credito, strumenti di assicurazione sui titoli di Stato, pongono implicitamente l’Italia e le sue emissioni nel segmento di mercato ‘junk’, ovvero spazzatura”. Il premio da pagare per avere questi derivati disegnati come polizze contro l’ipotesi di un default statale sottintendeva già da tempo, nel caso dell’Italia, un rating più basso non solo di quello con l’ultima “A”, tolta ieri dai canadesi, ma anche di quello già più severo di tutti che ci dà Standard and Poor’s.



Ribadito e spiegato, così, che la mossa dei canadesi è rubricabile come folclore locale, chiariamo che comunque non c’è da stare allegri. Anzi! E ancora una volta: non per i commentini da prima media con cui gli analisi canadesi hanno corredato la loro analisi, ricollegando il declassamento alla maggiore instabilità politica conseguente al “no” referendario (Montreal provincia di Rignano sull’Arno?); ma per le responsabilità degli ultimi governi, in particolare gli ultimi tre anni di governo, nel non aver messo mano seriamente ai saldi di bilancio pubblico e al problema bancario. Queste sono le grane vere.

Finalmente Gentiloni ha ovviato all’inazione renziana sul fronte bancario stanziando i 20 miliardi di sicurezza pubblica per i crac creditizi: ma questo tardivo ravvedimento operoso ha però sostanzialmente aggravato appunto di 20 miliardi il debito pubblico, senza che nel frattempo il governo – troppo occupato a promuovere la riforma costituzionale con cui Renzi voleva trasformarsi in monarca – abbia fatto nessuna delle tante cose pratiche fattibili, per esempio la riforma delle norme sul recupero crediti, cui il mercato finanziario guarda con ben altra attenzione. E i conti pubblici? Spennati da provvedimenti inutili a ogni fine – al sostegno dei consumi quanto a quello degli investimenti – come gli 80 euro o gli sgravi per l’occupazione, hanno peggiorato i loro saldi a vista d’occhio.

Sono di ieri gli ultimi aggiornamenti di Bankitalia: il debito pubblico è aumentato di 5,6 miliardi a novembre attestandosi a una quota di 2.229,4 miliardi, e nei primi undici mesi del 2016 ha totalizzato una crescita di 56,7 miliardi. Altro che rating canadese. Ci sarebbe da sperare in qualche altro ravvedimento operoso del governo Gentiloni: ma bisogna che Renzi glielo lasci fare, essendo tuttora “l’azionista di maggioranza” del governo, e che il ministro Padoan, teoricamente in grado di capire e di agire, esca dal letargo.