Da giorni ormai, l’ultima volta non più tardi di ieri, vi ripeto che le dinamiche macro della Germania stanno tramutandosi nel cavallo di Troia che Berlino, intesa sia come governo che come Bundesbank, utilizzeranno per mettere sotto pressione la Bce rispetto al programma di acquisti obbligazionari, sia sovrani che corporate. Come ho detto, il problema principale riguarda proprio quest’ultima categoria di bond, perché al netto di un sistema bancario restio nel concedere prestiti, il fatto che Francoforte compri obbligazioni di aziende anche con rating ballerino costituisce un sistema di finanziamento backdoor per l’economia. Sbagliatissimo, ma, al netto delle contingenza, per ora ancora necessario. 



Bene, nell’arco di 24 sono arrivate due conferme più che ufficiali a questa mia convinzione. A testimoniare come la spaccatura interna alla Bce sia ormai lampante ci hanno pensato le minute dell’ultimo incontro tra i membri dell’istituto di Francoforte, meeting nel quale l’Eurotower ha deciso di estendere il Quantitative easing di 9 mesi, anche se con un ammontare ridotto da 80 a 60 miliardi di euro al mese a partire da aprile. Nei verbali si legge che, nonostante i governatori della Bce abbiano dato «un sostegno molto ampio» alla decisione del collegio, alcuni banchieri si sono opposti al prolungamento del Qe per via del loro «ben noto scetticismo riguardo al programma e in particolare dell’acquisto di debito pubblico». Stando a tale visione, quest’ultimo «dovrebbe restare uno strumento contingente da usare solo in ultima istanza in uno scenario avverso come una situazione di deflazione imminente, non applicabile al presente dato che i rischi di deflazione si sono largamente dissipati». Nemmeno a dirlo, a capitanare l’ala degli scettici c’era Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. 



Alcuni membri, invece, hanno proposto un allungamento ancora più consistente del piano di acquisto di asset fino al 2018, mentre altri hanno suggerito un’estensione di 6 mesi a un ritmo di 60 miliardi. In ogni caso, «devono essere tenuti presenti i possibili effetti collaterali derivanti da ulteriori acquisti di titoli sovrani, particolarmente nel medio-lungo termine e in relazione all’interazione con l’ambito delle politiche di bilancio». Un riferimento non da poco, visto che gli esponenti della Bce «hanno espresso preoccupazione sulle decisioni a livello europeo che mettono in dubbio il funzionamento del patto di stabilità e di crescita». È stato specificato, infatti, «che la piena e coerente attuazione delle sue regole nel tempo e in tutti i Paesi resta cruciale per assicurare fiducia nel quadro di riferimento delle politiche di bilancio». 



Ieri, poi, a rincarare la dose, con un peso specifico potenzialmente maggiore anche di quello di Weidmann, ci ha pensato il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, in persona, il quale ha chiesto alla Bce, alla luce dell’aumento dell’inflazione nell’area euro, di iniziare a ridurre da quest’anno le sue misure straordinarie a sostegno dell’economia, a cominciare dal Qe. «Ritengo sia giustificato – dice Schaeuble in un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung – che la Bce cominci, a partire da quest’anno, a tentare di uscire” dalla sua politica monetaria ultra-accomodante». Pur ammettendo, bontà sua, che «questo compito sarà difficile», Schaeuble insiste sulla necessità di ridurre gli stimoli che l’istituto ha introdotto due anni fa per favorire la ripresa economica e far aumentare i prezzi. 

E la malafede tedesca è testimoniata dal fatto che l’inflazione è risalita di molto in Germania per effetto degli aumenti salariali, +2%, che hanno spinto i consumi e quindi fatto salire i prezzi, ma non nel resto dell’eurozona, tanto più che qui in Italia stiamo ancora flirtando con la deflazione: la politica della scarpa di una sola misura che deve andare bene a tutti fa comodo a Berlino, ma non è accettabile ancora per molto dagli altri Paesi, Italia, Spagna e Portogallo in testa. È pur vero che la Germania non ha mai nascosto il suo scetticismo sui tassi ultra-bassi della Bce e sul suo programma di acquisti, ma non certo per amore della Scuola austriaca di economia, bensì per interesse di parte: la politica ultra-accomodante e il Qe hanno drasticamente abbassato i rendimenti degli assets detenuti dai risparmiatori tedeschi e ha schiantato la profittabilità delle loro banche, sparkasse in testa. Ora, con l’inflazione che in Germania a dicembre è risalita al’1,7%, Schaeuble torna alla carica e non nasconde di condividere le lamentele dei risparmiatori del suo Paese: «Sto dalla loro parte – dice nell’intervista – I loro lamenti quest’anno cresceranno con l’aumento dell’inflazione». 

Dunque, le scelte di politica economica della Merkel, legate unicamente al fatto che quest’anno si vota in Germania, visto che fino al 2015 la spesa interna tedesca era a zero e si esportava con il badile, dobbiamo pagarle tutti noi: aumentano i prezzi in Germania per dinamiche interne? La ricetta per contrastare il contraccolpo patito da banche e risparmiatori teutonici deve essere applicata a tutti, non importano gli effetti collaterali. E la malafede di Schaeuble travalica, quando dice che «l’origine del problema non è la Bce, ma la costruzione dell’area euro. Un certo numero di Paesi membri non sta facendo quello che si erano impegnati a fare, specie riguardo al miglioramento della competitivita. La banca centrale ha un mandato da rispettare per l’Eurozona e lo sta facendo bene». Se sta lavorando così bene, perché allora il suo fidato giannizzero Weidmann passa tutto il tempo a cercare di sabotarne l’operato, opponendosi a tutto? Tanto più che il mandato della Bce riguarda la stabilità dei prezzi, i quali, in base agli obiettivi prefissati, devono attestarsi a un livello vicino ma inferiore al 2%: a dicembre i prezzi al consumo nell’area euro sono rimbalzati all’1,1% tendenziale contro lo 0,6% di novembre. Non proprio il 2%, ancora. E, ripeto, l’Italia – la quale conta qualcosa a livello di peso economico nell’eurozona – è molto vicina allo 0. 

Certo, noi abbiamo la nostra notevole parte di responsabilità, visto che non facendo nulla per il problema numero uno, ovvero l’occupazione, difficilmente potremo vedere l’economia ripartire e le spese private per consumi salire grazie ai voucher. Resta però il fatto che il momento è delicatissimo e i potenziali disastri che potrebbe fare la politica economica di Trump, uniti a un dollaro indebolito per scelta commerciale, potrebbero far ripiombare l’Europa in piena crisi. E la conferma a quanto dico è arrivata, indirettamente, anche dalle caute parole del governatore della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau, il quale ha affermato che è esagerato dire che ci sia un ritorno dell’inflazione nella zona euro. 

Per l’esponente del Consiglio direttivo della Bce, non occorre la modifica della politica monetaria in risposta all’accelerazione della crescita dei prezzi al consumo nel mese di dicembre: stando a Villeroy de Galhau, la politica della Bce è un «segno di stabilità in un anno di incertezze, tra cui le elezioni in Francia, Germania, Olanda e forse Italia». Come vedete, ognuno tira l’acqua al suo mulino. Solo in Italia ci riempiamo la bocca con il concetto di Europa inteso come unione e condivisione: quando ci sveglieremo, sarà sempre troppo tardi. 

In compenso ciò che è sempre ben sveglio e in continua ascesa è il nostro debito pubblico. È infatti di ieri il dato in base al quale, a novembre, il debito delle amministrazioni pubbliche è stato pari a 2.229,4 miliardi di euro, in aumento di 5,6 miliardi rispetto al mese precedente. Bankitalia ha spiegato che l’incremento è dovuto al fabbisogno mensile delle amministrazioni pubbliche per 7,1 miliardi, parzialmente compensato dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro per 1,6 miliardi. Considerando i primi undici mesi del 2016, il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato di 56,7 miliardi: l’incremento riflette il fabbisogno di 52,4 miliardi e l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro per 10,4 miliardi. Infine, a ottobre, l’ultimo dato disponibile, su un debito pubblico pari a 2.223 miliardi la quota in mano all’estero, ovvero ai soggetti non residenti, è risultata pari a 737,8 miliardi. Sulla quota di debito in mano estera 689,9 miliardi sono rappresentati da titoli pubblici, in aumento di quasi 2 miliardi rispetto al mese di ottobre. 

Si compra Italia, ma non perché Renzi era un fenomeno e Gentiloni (a proposito, auguri di pronta guarigione) ancora meglio, ma solo perché c’è Draghi che garantisce sul rischio Paese con i suoi acquisti. Ancora qualche latrato tedesco e qualcuno potrebbe cominciare a prezzare davvero la possibilità del tapering, magari cominciando a scaricare posizioni sui Btp, tanto per vedere l’effetto che fa. E, attenti, sono molti gli hedge funds che hanno in portafoglio debito italiano a solo fine speculativo, visti i rendimenti ancora generalmente molto bassi: e quella è gente che oggi c’è e domani non si sa. Magari non hanno voglia di restare con il cerino in mano e il bluff di Schaeuble andranno a vederlo. Il governo batta un colpo con Berlino. E in fretta.