Strano Paese, l’Italia. Il “congelamento” della riforma delle banche popolari disposto dal Consiglio di Stato in attesa che la Corte Costituzionale decida nel merito sulla “schiforma” – voluta dal governo Renzi per motivi sostanzialmente mai spiegati, e comunque indimostrabili, e probabilmente indicibili – giustificherebbe sin d’ora una valanga di “class action”. Tutti gli azionisti delle otto banche popolari che, prese dalla fregola di ottemperare a un diktat assurdo, hanno accettato di trasformarsi in Società per azioni molto prima che si approssimasse la “scadenza termini” del diktat stesso, hanno sottoposto i loro soci a un regime differenziale e punitivo, rispetto a quello che la Costituzione riconosce agli altri risparmiatori in materia di “diritto di recesso”.



Questa gente ha dovuto accontentarsi di poco, per la superiore esigenza – ravvisata in sede di riforma dalla correa morale dell’operazione, la Banca d’Italia – di anteporre la stabilità patrimoniale delle banche in via di trasformazione al diritto, pur costituzionalmente protetto, dei quotisti cooperativi a non convertire le proprie quote in azioni, esercitando il diritto di recesso e cioè chiedendo in cambio di uscire della cooperativa dietro pagamento di un giusto corrispettivo in denaro. Quindi gli ex quotisti delle ex popolari divenute Spa che hanno esercitato il diritto di recesso hanno dovuto accontentarsi di due fichi e un peperone come corrispettivo.



Quando la Consulta sancirà l’ovvio, cioè che nessun medico ordinava alle popolari di convertirsi in Spa se non avevano i soldi per pagare equamente i recessi, questi ex quotisti bidonati potranno fare grandi class-action chiedendo i danni al governo. L’unica difesa delle popolari sarà infatti quella di appellarsi alla riforma, transitoriamente in vigore: ma la Popolare di Bari e la Popolare di Sondrio, che non si sono ancora trasformate e che a questo punto non avranno più l’obbligo di farlo quando la Consulta si pronuncerà, dimostrano che le banche frettolose avrebbero potuto attendere. Comunque, col governo i quotisti bidonati potranno sempre prendersela: se non si sono ancora organizzati per farlo è solo a causa del nirvana propagandistico che il renzismo aveva imposto su di loro – e anche sulle varie associazioni di risparmiatori e consumatori – convincendoli che tutto fosse bello e buono, e che i cattivi fossero i banchieri popolari. Alcuni, certamente: ma non più degli altri banchieri.



E c’è di più. Come osservavano acutamente i numerosi giuristi schifati e increduli per una riforma così proterva, violenta e sgangherata, la sospensiva che il Consiglio di Stato ha disposto il 13 gennaio sugli effetti della riforma riapre la porta anche a un’altra opportunità, che prospera nel mondo (Credit Agricole in Francia), ma anche in Italia, nel caso dell’Unipol. L’opportunità, cioè, che la cooperativa bancaria diventi una Spa, ma che i soci cooperatori anziché trasformare le loro quote in azioni, perdere il voto capitario e trasferire a gratis il controllo delle banche agli azionisti istituzionali stranieri – amici di Davide Serra del fondo Algebris o di Jamie Dimon della JpMorgan, cioè amici degli amici di Renzi, come si vedrà quanto prima nel caso del neofuso Banco Bpm – lo conservino conferendo almeno il 51% delle azioni della banca divenuta spa in una holding cooperativa. Si potrà fare anche così, in futuro: altrimenti perché all’Unipol lo lasciano fare?

Resta il fatto, intanto, che per almeno sei mesi la riforma delle popolari è congelata. In attesa della sentenza della Corte Costituzionale, “gli operatori del settore ed i soci delle banche in questione si troverebbero in una oggettiva situazione di incertezza sul quadro normativo”, hanno scritto i giudici del Consiglio, massima magistratura amministrativa del Paese, “tale da condizionare anche le scelte individuali, con la conseguente incidenza anche sulla stessa effettiva rilevanza del presente giudizio e dello stesso giudizio incidentale di costituzionalità”.

Il Consiglio di Stato ha respinto tutte le eccezioni sollevate dalla Presidenza del Consiglio e dalla Banca d’Italia, a partire da quella secondo cui l’intervento della Banca Popolare di Sondrio – firmataria dell’ultimo ricorso – era inammissibile. La Popolare di Sondrio, “in quanto banca e persona giuridica diversa dai suoi soci – si legge nell’ordinanza – può essere reputata portatrice di un interesse alla tutela di un bene”. Inoltre, “la individuazione di una specifica data (limite per la trasformazione, ndr) non è stata disposta senz’altro dalla legge, avendo il legislatore invece disposto che il termine deriva dal compimento di diciotto mesi, successivi alla emanazione della circolare della Banca d’Italia (atto a natura sostanzialmente regolamentare e ad effetti inscindibili)”.

Perfidamente, la senatrice Cinzia Bonfrisco (Conservatori e Riformisti) ha addebitato la batosta del Consiglio di Stato anche sul conto del governo Gentiloni, “che non ha saputo mettere in campo soluzioni risolutive ed efficaci, certificando in questo modo la propria inadeguatezza. Ancora una volta è la magistratura che si trova a dover intervenire dove la politica non arriva più”. In realtà, il povero Gentiloni c’avrebbe anche provato, ma è stato sgominato dalla grinta aggressiva della Boschi, teleguidata da Rignano sull’Arno…

E ora? “Ora la questione è del tutto aperta”, conclude Corrado Sforza Fogliani, presidente dell’Associazione nazionale tra le banche popolari, “e certamente ci sono oggi le condizioni perché possa essere risolta salvaguardando la funzione essenziale delle banche territoriali e il ruolo insostituibile che le stesse svolgono a favore delle zone di appartenenza, anche salvaguardando la concorrenza da ogni oligopolio”.

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