Vivevo a Washington, capitale degli Stati Uniti, quando Ronald Reagan venne eletto quarantesimo Presidente. Leggevo un quotidiano italiano a cui collaboravo sotto pseudonimo (necessario in quanto dirigente della Banca Mondiale). L’elezione di un ex attore di film Western di serie B al più alto seggio degli Usa destava perplessità più in Europa che negli Stati Uniti. Pochi europei tenevano conto che Reagan, nella veste di Governatore della California, aveva risanato le finanze pubbliche di uno Stato della dimensione e della popolazione dell’Italia. Successivamente, dal 1981 al 1989, Reagan si rivelò un ottimo Presidente sotto tutti gli aspetti, specialmente sotto quello economico.
Ma Donald Trump , che si insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio, non ha il profilo di Reagan, che da attore di film a basso costo a vasta diffusione era diventato, dopo una carriera politica da grande impegno, un Governatore di livello di un grande Stato dell’Unione e aveva mostrato idee chiare soprattutto in finanza pubblica ed economia. The Donald è diventato Presidente degli Stati Uniti dopo una campagna elettorale controversa e densa di accuse reciproche di trucchi e brogli. In campo economico, ha proposto frammenti di programmi e di misure, al di fuori di un quadro politico coerente. Quindi, la sua elezione è stata presentata, principalmente sulla stampa liberal degli Stati Uniti come “An American Tragedy”, titolo di un lungo articolo di David Remnick sul New Yorker del 9 novembre in cui chiama l’ingresso di Trump alla Casa Bianca come nulla di meno di una tragedia per la Repubblica Americana, una tragedia per la Costituzione e un trionfo per le forze, all’interno e all’estero, del “nativismo” (essere di stirpe americana), autoritarismo, misoginia e razzismo. Un quadro più nero non si poteva immaginare, a cui The Nation del 19 dicembre ha risposto con un ironico Trumpocalypse, un servizio ironizzando su coloro che vedono, e mostrano, Trump come i quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Sotto il profilo economico, dato che, come ha scritto Luigi Zingales sul Corriere della Sera dell’8 gennaio, “Se Trump è pro business, non è mercato”, è difficile congetturare una politica liberal-liberista come quella dei suoi predecessori di provenienza dal G.O.P. Manterrà e forse rafforzerà il liberismo in materia di economia dell’informazione e della comunicazione, come documentano Randolph Court e Rober D. Atkinson in “Trumpism and the New Economy” nel Washington Monthly. Ma la sua indole è essenzialmente protezionista, in materia di politica economica interna e internazionale: lo scrive molto efficacemente Nouriel Roubini in “American First and Global Conflict Next” , pubblicato il 2 gennaio sulla catena di giornali Project Syndacate.
È doveroso fare un’apertura di credito al nuovo inquilino della Casa Bianca e attendere il 21 febbraio, quando Trump dovrà presentare al Congresso il Discorso sullo Stato dell’Unione, ossia il proprio programma di Governo. Tuttavia dai brandelli e frammenti di politica economica, apparsi durante la campagna elettorale e nelle ultime settimane, appaiono emergere questi elementi:
Disinteresse per il Continente vecchio, da non considerare più di un player di poco peso nel contesto internazionale avviluppato nei problemi che si è creato con le sue proprie mani, in primo luogo un’Unione europea in graduale disfacimento.
Una politica commerciale e di investimenti internazionali in cui verrà utilizzata la leva tributaria (per proteggere gli interessi delle imprese americane) più di quella dei dazi e dei contingenti.
Una politica molto selettiva in materia di immigrazione diretta a fare entrare (negli Usa) solo coloro della cui preparazione tecnica gli Stati Uniti hanno bisogno.
Un’alleanza economica con la Federazione Russa, principalmente in materia di energia.
Non è un quadro incoraggiante. Aspettiamo il 21 febbraio con una certa ansia.