Dallo storytelling euforico anti-gufi alla gogna internazionale che somiglia sinistramente a quella dell’ultimo Berlusconi, con gli euroburocrati – pur se ormai discreditati in tutto il mondo, a cominciare dalla nuova Casa Bianca – che affondano la loro lama nel burro dell’inconsistenza politica italiana: che brutta parabola, in un anno, e la sconfitta referendaria non è la causa ma l’effetto del venire al pettine di tutti i nodi irrisolti della finanza pubblica renziana.



Il senso del richiamo ufficiale delle autorità europee alla necessità di una manovra correttiva di bilancio da quasi 4 miliardi è tutto qui: game over, i giochi di parole sulla crescita che magicamente, et voilà, risana i conti pubblici sono da archiviare. L’Europa vuole un ripianamento dello sbilancio del deficit pubblico e si rimangia la famosa “flessibilità”. Quest’è quanto; poi che gli euroburocrati siano degli incapaci al servizio di Schauble, che il modello-euro sia in crisi, che nessun sa che Europa avremo fra tre anni e se ne avremo ancora una, ebbene: tutto ciò non toglie che oggi siamo nuovamente sotto schiaffo.



A dir poco flebile la replica di Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia: “Vedremo se sarà il caso di prendere misure ulteriori per rispettare gli obiettivi”, dichiara al Tg3. Ma come, vedremo? E lui dov’era il 3 dicembre, dopo aver licenziato le bozze della legge di Bilancio? Cosa vedrà? Ma davvero vogliono far credere al mondo che sia stata l’instabilità politica indotta dal referendum a destabilizzare la credibilità italiana, con il nuovo governo confermato nei suoi effettivi al 95%? E poi: “La via maestra è la crescita, che è la priorità del governo”, un mantra ripetuto senza effetti significativi per tre anni. E ancora: “Bruxelles ci ricorda che abbiamo un debito troppo alto che avrebbe dovuto cominciare a scendere da quest’anno” – ma tu guarda! E perché non l’ha fatto? “Ma naturalmente perché siamo stati in deflazione nel 2016 (peccato che con la deflazione il costo del debito è sceso ai minimi, ndr) e le condizioni di mercato non hanno consentito di completare il programma di privatizzazioni ma quest’anno prenderà di nuovo quota”.



Allora, una volta per tutte: è dal ’97, da vent’anni – da Prodi in poi – che si millanta un nesso tra privatizzazioni e debito. La Francia, che non ha privatizzato niente, non è messa come noi. La Germania, che dopo aver messo 600 miliardi nelle sue banche per salvarle dalla crisi del 2008 ha ancora più Stato di noi nell’economia, idem. Le nostre privatizzazioni-monstre hanno solo fatto al fortuna delle banche d’affari internazionali convocate a mediarle e di un po’ di “prenditori” (non “imprenditori”, che sono un’altra cosa) i quali si sono accaparrati i monopoli naturali solitamente con acquisizioni a leva, ovvero indebitando le aziende preda… Certo, privatizzando si abbatte il capitale da rimborsare, ma gli oltre 120 miliardi di euro di privatizzazioni italiane sono stai più che assorbiti, e quindi sperperati, dalla spesa pubblica.

Perché la verità è che le privatizzazioni non c’entrano niente col boom del debito. Il governo Renzi ha lasciato andare la spesa corrente, anziché contenerla; ha smontato la strategia della Consip, la società pubblica che con le aste telematiche serve a tener bassa appunto la spesa per gli acquisti, e i refoli giudiziari che lambiscono quella realtà non sono belli a sentirsi; tarantolato dalla pretesa di fare una riforma che avrebbe edificato un piedistallo sotto i piedi del premier, non ha fatto nulla per tagliare le unghie alle Regioni sprecone; non ha rivisto il meccanismo assurdo dei costi standard, che oggi anziché imporre a tutte le Regioni di adottare i prezzi di quelle migliori concedono di adottare comode medie per cui quelli bravi a spendere poco si sentono fessi e iniziano a spendere di più, mentre i ladroni possono limitarsi a spendere solo un po’ di meno, insomma a scendere al gradino di ladri semplici.

Dunque il governo Renzi non ha gestito a dovere l’operatività, riempendo i ministeri – anche quelli chiave – di comparielli incapaci di padroneggiare le tecnostrutture che si sono insensibilmente e gradualmente, ma totalmente ammutinate. E la macchina dello Stato è finita a ramengo, come prima più di prima, vanificando condizioni di contesto tanto favolose quanto irripetibili, dal greggio a due lire ai tassi rasoterra.

I Carneadi canadesi dell’agenzia di rating Dbrs che hanno tolto all’Italia l’ultima “A” che aveva da qualche parte il nostro debito contano come il due di picche quando la briscola è a denari. Semmai sarà la decisione di Fitch, attesa per il 21 aprile prossimo, a poter infliggere all’Italia un altro taglio di rating, stavolta più nocivo. Ma le chiacchiere delle discreditatissime agenzie di rating stanno a zero: contano i numeri. Nel 2008 il rapporto debito/Pil era sceso fino a sfiorare il 100%, ora è di nuovo al 132%, e la salita c’è stata anche durante i tre anni di Renzi, sia pure su ritmi più lenti di quelli del quadriennio precedente. La crescita del Pil, facendo base a 100 nel 2008, per l’Italia è stata negativa, con una perdita di 8 punti, mentre per la media dell’Europa a 19 positiva di 2 punti, per la Francia di 4 e per la Germania di 6…

Diranno i renziani che è tutta colpa del referendum perduto, e che alla fine l’unico errore è stato farlo, e farlo in quel modo. Balle. C’è un tema concreto, che è la capacità  di governo. Senza voler escludere la buona fede – tutto può essere – quando Padoan difende le scelte sulle banche affermando che “i 20 miliardi messi in campo dal governo sono più che abbondanti”, sembra che stia su “Scherzi a parte”, se solo ci si ricorda del cumulo di bubbole dette con la stessa enfasi trùllera sul Monte dei Paschi di Siena.

L’Azienda Italia è nell’angolo. Sarà un miracolo riuscire a cavarla fuori.