Non ha nemmeno atteso l’ingresso ufficiale a Pennsylvania Avenue, Donald Trump. Come vi dico da settimane, il dollaro troppo forte è una priorità per il nuovo presidente Usa e l’altra notte, quando alle 11.47 il Wall Street Journal ha pubblicato l’ultimo estratto dell’intervista fatta venerdì scorso al presidente eletto, il mercato intero ne ha preso atto, dando fine al rally da Trumpflation innescato dalla vittoria dello scorso novembre e dalla conseguenti promesse in ambito economico. Per Trump, «il dollaro oggi è già troppo forte, le nostre aziende non riescono e non possono competere con quelle cinesi per questo motivo. Lo yuan sta crollando come un sasso e le azioni messe in campo per sostenerlo dalle autorità di Pechino sono fatte soltanto per non farci arrabbiare. Questa situazione ci sta uccidendo». Detto fatto, il dollaro, durante le contrattazioni asiatiche, è sceso su tutte le valute principali: l’euro è infatti salito a quota 1,0653 (+0,5%), lo yen è cresciuto a 113,4 (+0,7%) e anche la sterlina ha ripreso quota (+0,5% a 1,2106). E lo stesso Wall Street Journal mette il carico da novanta, sottolineando come Trump abbia rotto la recente tradizione che vedeva il presidente astenersi da commenti sulla valutazione del dollaro, oltretutto parlando chiaramente di un biglietto verde che deve svalutarsi, non apprezzarsi.
A oggi, il dollaro è su del 4% rispetto a un paniere di altre valute dal giorno dell’elezione di Trump, ma ben del 25% da metà del 2014: e dal World Economic Forum in corso a Davos, in Svizzera, il consigliere di Trump, Anthony Scaramucci, ha ribadito che «gli Stati Uniti devono stare molto attenti quando si parla di dollaro in salita». In parole povere, il rally del biglietto verde potrebbe essere finito. Ciò che vi dico da tempo. E che l’aria sia quella da guerra commerciale alle porte, lo ha confermato paradossalmente il tono molto accomodante utilizzato sempre parlando a Davos dal presidente cinese Xi Jinping, il quale ha addirittura difeso il concetto di globalizzazione dalle critiche di stampo nazionalista e protezionista mosse da Trump e da alcuni partiti e movimenti populisti occidentali. Parlando alla platea del simposio economico, Jinping ha detto che «il protezionismo è come guardarsi in una stanza buia, certamente ci sembra che ci metta al riparo da vento e pioggia, ma, allo stesso tempo, non permette al sole di penetrare. Nessuno vince in una guerra commerciale».
Un atteggiamento ambivalente e ambiguo, quello cinese, visto che non più tardi di lunedì mattina Pechino ha minacciato di ricorrere alle maniere forti se il presidente eletto degli Stati Uniti continuerà a sfidare la politica di Pechino su Taiwan e sul concetto di una sola Cina: «Ci leveremo i guanti», ha avvertito il China Daily in un editoriale, avvertendo che le autorità cinesi devono prepararsi a «una battaglia costosa» con il tycoon che il 20 gennaio si insedierà alla Casa bianca. Nell’editoriale, il quotidiano di Stato cinese ha spiegato che a Trump «difficilmente sarà concesso il beneficio del dubbio per la seconda volta. La questione di Taiwan è un vaso di Pandora potenzialmente letale», ha aggiunto.
Stando a China Daily è evidente che se Trump è «determinato a usare questo argomento durante il suo insediamento, allora un periodo di feroci e dannose interazioni con la Cina sarà inevitabile e Pechino non avrà altra scelta che togliersi i guanti». E già l’altro ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lu Kang aveva detto che il principio di «una sola Cina non è negoziabile. C’è una sola Cina nel mondo, Taiwan è una regione inalienabile della Cina e il governo della Repubblica popolare cinese è l’unico legittimo governo che rappresenti la Cina», aveva aggiunto.
Insomma, se Trump cerca distensione con la Russia, si è già capito quale sarà il bersaglio favorito della sua amministrazione, sia a livello economico-commerciale che di politica estera. Ma attenzione, perché in una mossa che pochi si attendevano, nella stessa intervista al Wall Street Journal, Donald Trump ha massacrato la cosiddetta Border Adjustment Tax (Bat), di fatto la pietra miliare della politica fiscale dei Repubblica al Congresso, la loro alternativa in fatto di tassazione corporate per evitare che la Casa Bianca imponga il suo piano originario, ovvero i dazi sull’import, ma che, nei calcoli dello staff del presidente, rischierebbe di portare sul lungo periodo a un apprezzamento del dollaro del 15%. Quindi, inaccettabile. «Ogni volta che sento parlare di border adjustment, non mi piace. È una proposta troppo complicata», ha tagliato corto Trump. Questa misura è parte del piano Better Way studiato dal portavoce alla House of Representatives, Paul Ryan, per la riforma fiscale, presentato e discusso lunedì con eminenti membri del team di transizione a Capitol Hill. E strozzato nella culla da Trump addirittura tre giorni prima, quando aveva rilasciato l’intervista al Wall Street Journal.
La misura intende favorire la manifattura statunitense tassando l’import e invece esentando le revenues dell’export americano dalla tassazione corporate: moltissimi osservatori davano per scontato l’appoggio di Trump alla misura, ma dopo consultazioni con i suoi consiglieri l’ha bocciata, definendola «un qualcosa che si è tramutato in un brutto accordo». Cosa significa questo? Che Trump andrà di protezionismo pesante, operando sui dazi, se il Congresso non riuscirà a bloccare o ridimensionare i suoi propositi. Ma a favore dell’oltranzismo di Trump contro la Border Adjustment Tax ci sono gli operatori del settore delle vendite al dettaglio e del petrolio, non esattamente residuali per l’economia Usa, i quali hanno già messo in guardia che una legge simile farebbe lievitare il loro carico fiscale e li costringerebbe ad alzare i prezzi, vista la loro cronica dipendenza da beni importati. Ancora più importante l’opposizione alla norme dimostrata dalla Koch Industries, un conglomerato gestito da due fratelli miliardari molto attivi all’interno del Partito Repubblicano, i quali già lo scorso mese avevano messo in chiaro come quella misure avrebbe avuto conseguenze di lungo termine devastanti per l’economia e i consumatori americani.
Prepariamoci, perché Donald Trump in campo economico farà per filo e per segno ciò che ha promesso in campagna elettorale, in primis ridimensionare la forza del dollaro per riconquistare quote di mercato e restare competitivi nel commercio globale. La Cina è avvertita e ha i suoi metodi per combattere la battaglia, grazie anche alla sempre presente e attiva Banca del Popolo, ma l’Europa e la Bce sono pronte a “togliersi i guanti”, se necessario? Siamo pronti alla sfida del secolo con la Casa Bianca, a colpi di dazi doganali, limiti all’export e guerra valutaria? Io temo di no, ma domani ci sarà il board dell’Eurotower e poi parlerà Mario Draghi: sentiamo cosa dirà.