Vi siete chiesti perché Obama sta comportandosi con Putin come un bambino frustrato e petulante che si diverte a fare i dispetti? Ovviamente una ragione, immediata, è quella di avvelenare i pozzi della politica estera già annunciata da Donald Trump, ovvero la distensione dei rapporti con la Russia, ma c’è dell’altro. E questo altro non ha nulla a che fare con gli hacker o con la Siria, sta tutto nell’economia statunitense. La quale, come vi dico da sempre, ha avuto un picco minimo di recupero garantito dalla Fed, ma ora è in pieno nella zona conclusiva del ciclo: in parole povere, recessione alle porte. Capite che agitare lo spettro della minaccia rossa, in una rivisitazione 2.0 e parecchio patetica del maccartismo, può nel breve termine tenere impegnati media e opinione pubblica dal mettere il naso nello stato reale dell’azienda America, semplicemente devastata dalle scelte keynesiane della Fed e dall’incapacità totale di Obama e dei suoi uomini.



Il grafico a fondo pagina ci mostra una delle criticità maggiori: nel 2016, il mercato obbligazionario investment grade americano ha passato il livello chiave nel mese di agosto, quando l’ammontare di debito high grade in circolazione ha toccato quota 6 triliardi di dollari, il triplo rispetto ai 2 triliardi raggiunti durante la crisi finanziaria. L’aggravante è che la gran parte, se non tutto, di quanto ricavato da quelle emissioni è stato usato per buybacks azionari, unico balsamo di una Wall Street mai così esposta a leva. Ora, con il 2016 appena concluso, ecco apparire un’altra volta quota 6 triliardi di dollari ma legata a una metrica un attimino differente: stando a Dealogic, le vendite di debito a livello globale nell’anno appena trascorso hanno sfondato tutti i record, spinte dalle aziende che volevano caricarsi il più possibile, sfruttando ancora il basso costo del denaro, soprattutto in vista di tre nuovi aumenti da parte della Fed e dalle promesse economiche di Trump, capaci prima di essere messe in pratica di spedire alle stelle le aspettative inflazionistiche (quindi, la fine della politica monetaria espansiva).



Stando a quanto riportato dal Financial Times, grazie ai tassi rimasti a zero per tutto il 2016, le emissioni di debito totali sono salite a 6,6 triliardi di dollari, ben oltre il record precedente toccato nel 2006. Le aziende corporate hanno pesato per oltre la metà di quei 6,62 triliardi di dollari di debito emesso, di fatto una conferma di come la fine del Qe non abbia spaventato nessuno, visto che chiusi i rubinetti della Fed – ma non le swap lines di emergenza – sono stati i tassi negativi imposti da Bce e Bank of Japan a spingere le aziende verso maggiore indebitamento e utilizzo della leva.



Qual è il problema che Obama vuole nascondere? Semplice, ora i tassi reali stanno salendo. E in fretta. Le vendite di bond corporate – sia investment grade che junk – sono salite dell’8% su base annua a quota 3,6 triliardi di dollari, trascinate da accordi superiori ai 10 miliardi di dollari tra aziende attraverso grandi operazioni di fusione e acquisizione. Il resto del debito emesso include bond sovrani venduti attraverso bank syndication, agenzie Usa e internazionali, oltre a mortgage-backed securities e covered bonds: il dato non contempla invece il debito sovrano piazzato sul mercato attraverso aste regolari.

Certo, le dinamiche non sono immediate, ma il recente rally innescato dalla Trumpflation ha accelerato un movimento al rialzo nei tassi di interesse, un qualcosa che per molti investitori renderà meno gestibile il carico debitorio nell’arco dell’anno appena iniziato. Inoltre, le nuove emissioni di debito saranno più care per il ramo corporate: il tempo dei tassi a zero è finito, così come quello dei rischi a zero.

Parlando con il Financial Times, Scott Mather di Pimco ha messo la questione in prospettiva: «Il basso costo del finanziamento garantito da tassi pressoché a zero ha reso una tentazione il ricorso alla leva e la creazione di grossi stock debitori. Questo avviene in tutti i cicli economici, ma quello che rende speciale il momento che stiamo vivendo è stata l’incentivazione ulteriore all’emissione di debito a bassi tassi di interesse. Una dinamica simile non fa che piantare i semi della prossima crisi o del prossimo evento di credito». Basti pensare che 8 delle 10 più grandi vendite obbligazionarie del 2016, sottoscritte da banche, era legate al ramo corporate, compresa le offerte del gigante della birra Anheuser-Busch InBev, di Dell e di Microsoft.

Di più, il 2016 è stato speciale come anno anche perché l’universo obbligazionario a rendimenti negativi ha toccato a un certo punto i 14 triliardi di dollari di controvalore, di fatto obbligando gli asset manager a digerire una politica di returns molti più bassi. Ma non solo il mondo corporate ha fatto indigestione di debito, visto che nell’anno appena concluso gli emittenti cinesi e giapponesi hanno visto un aumento, su base annua, rispettivamente del 23% e del 30%: come sia messo il Giappone, ve l’ho spiegato nell’articolo di giovedì scorso. Ora però ci sono due grandi sfide all’orizzonte, sfide che vedranno i venditori seriali di debito nuotare in acque più alte e infide: la Fed ha promesso tre rialzi dei tassi nel 2017 e Trump potrebbe mandare fuori controllo l’inflazione con le sue politiche, inoltre non si sa cosa faranno dei loro programmi di acquisto obbligazionario sia la Bce che la Bank of Japan. Certo, abbiamo date e ammontare di acquisti, ma se qualcosa dovesse cambiare sul mercato, ipotesi molto probabile, diventerebbe davvero problematico mantenere quelle promesse. Il tutto in un mondo dove, stando a un ricerca della McKinsey, la ratio debito/Pil a livello globale oggi è attorno al 225%, quando nel secondo trimestre del 2014 era “solo” a un già fantascientifico 199%.

Insomma, il mondo sta letteralmente annegando nel debito, alla faccia dell’austerity. Cosa potrebbe accadere? Semplice, ogni minimo rallentamento nell’emissione di debito od ogni possibile ostacolo che si frapporrà sulla strada del roll-over di quei triliardi di debito a breve termine, potrebbe scatenare una calamità sui mercati. Ma ecco che, a quel punto, potrebbe rientrare in gioco la dinamica della Fed: rendimenti in risalita per qualche mese, panico e poi i timori di una nuova recessione rimanderanno gli yields in basso, possibilmente ai minimi storici assoluti. Cosa serve per ottenere questo? Altro Qe da parte della Federal Reserve.

Volete dire che Donald Trump ha vinto perché Wall Street era certa che con le sue politiche espansive incastonate in uno scenario debitorio simile avrebbe mandato il sistema in tilt e reso necessario un nuovo intervento di Janet Yellen, in grado di garantire massimi storici e dividendi per tutti? Se intendete dire questo, avete ragione. Altrimenti, state certi che con le buone o le cattive, alla Casa Bianca sarebbe sbarcata Hillary Clinton. Donald Trump sarà prima il detonatore e poi il grande capro espiatorio della prossima crisi, con i media pronti a lapidarlo, dimenticando che il disastro è stato preparato da amministrazione Obama e Fed dal 2010 in poi.

Altro che muro con il Messico, questo è materiale da giubilazione serio. E, soprattutto, utilissimo per far ottenere al casino di Wall Street ciò di cui ha bisogno: denaro gratis per fare altri soldi, mentre l’economia reale si schianta al suolo. Buon 2017, vi assicuro che ne succederanno di tutti i colori.