È un mondo che va alla rovescia quello che si prepara a incoronare Donald Trump. Le Borse, ad esempio, non servono più a raccogliere capitale di rischio, nota il Rapporto sull’Economia Globale del Centro Einaudi. Al contrario, “l’analisi dei flussi finanziari mostra che, a partire dal 2015, il capitale privato sia americano che straniero ha operato un disinvestimento netto dalla Borsa americana, nella quale hanno invece investito cifre notevoli le società in essa quotate”. Il mistero si spiega con i tassi bassi grazie ai quali le aziende hanno potuto finanziare l’acquisto di azioni proprie, il buyback, al ritmo di 50 miliardi di dollari. In sostanza, le società hanno finanziato i soci piuttosto che la crescita.



È in questa cornice che prende velocità il dimagrimento della classe media, la vera vittima di questo inizio millennio. “Dopo il superamento della crisi del 2008/09 – scrive Deaglio – si prevedeva, a partire dal 2013 un forte rimbalzo che, entro due anni, avrebbe riportato la crescita del Pil mondiale sopra il 4,5 per cento, vicino ai livelli pre-crisi”. Ma non è andata così. “Il tasso effettivo di crescita mondiale del 2015 si è situato appena sopra il 3 per cento e non dovrebbe raggiungere il 4 per cento nemmeno nel 2021, in un orizzonte di stagnazione globale in cui tra l’altro potrebbe cambiare la natura stessa del lavoro, sotto la pressione dell’economia digitale”.



Il risultato? La miscela tra mancata crescita e Internet con i suoi effetti sulla domanda di lavoro ha contribuito a complicare molti “nodi” che della società e della politica che stanno venendo al pettine. Si fa così strada la disgregazione dell’ordine politico ed economico: il nuovo modo di produzione ha fatto sì che la classe media americana sia scesa dal 51 al 41 per cento della popolazione. Non più del 2 per cento è salito, l’8-10 per cento è scivolato all’ingiù, per giunta spesso in una posizione precaria”. In sintesi, “il protezionismo dichiarato di Trump è, al proposito, un caso da manuale”.



Si apre così una stagione che sarà senz’altro movimentata e ricca di sorprese, non solo per gli Stati Uniti. Al centro della scena ci sarà il dollaro, simbolo della rinnovata centralità americana. “Nei prossimi mesi – prevede Deaglio – i mercati daranno ampio credito al presidente con effetto positivo sugli investimenti. Poi il giudizio potrebbe cambiare se certe scelte non saranno vincenti. O se una parte dell’establishment entrerà in collisione con Trump”. Molto dipenderà dai possibili sviluppi del duello a distanza con la Cina, decisa a contenere la forza della potenza americana ampliando il ricorso ai diritti speciali di prelievo del Fmi in alternativa agli Usa.

Intanto prende corpo una possibile alleanza tra i Paesi manifatturieri più votati all’export per difendere il commercio ai tempi del protezionismo latente: la Germania, minacciata dai dazi Usa, ha molti interessi in comune con la Cina, forse più che con l’Eurozona. Al punto che non è poi così bizzarro chiedersi, come ha fatto Roland Berger, consigliere di Angela Merkel, se convenga ancora alla Germania l’appartenenza all’Eurozona, più una zavorra che un reale vantaggio per Berlino. Per più motivi: i tassi troppo bassi pesano sul risparmio dei pensionati tedeschi; il rischio di dover in qualche modo far fronte al debito di italiani o spagnoli è un incubo che spaventa sempre di più; i Paesi del Mediterraneo non sono più lo sbocco principale dell’export tedesco, così come la manodopera del sud Europa non è più la principale fonte cui si rivolge la macchina industriale tedesca. Insomma, paralizzata dai veti reciproci, l’Unione europea appare più come un’eredità scomoda del passato che non una reale opportunità per riaffermare un’identità forte verso la Russia o l’altra sponda del Mediterraneo.

Certo, il quadro non è così drammatico. Nel caso l’Ue superi le difficoltà poste dalle elezioni olandesi, francesi e tedesche senza colpi di scena devastanti, è probabile arrivi alla fine del 2017 senza traumi. Ma fa tristezza prender atto, com’è avvenuto nel direttorio di ieri della Bce, che nel migliore dei casi l’Ue resta ferma, in attesa delle mosse altrui, confidando nel potere taumaturgico del tempo. Prendiamo il caso della Grecia. “C’è un programma in corso e ci sono negoziati tra il Governo e i responsabili del piano di aiuti di cui tutti siete informati” ha detto Mario Draghi in conferenza stampa. Le stesse parole che poteva pronunciare (e l’ha fatto) nel 2011. Chissà se la scena si ripeterà nel 2021 oppure se nel frattempo suonerà il gong.