Nascosto dall’emergenza neve in Centro Italia (un applauso e un grazie infinito ai chi ha messo a repentaglio la propria incolumità per salvare vite umane) e dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, ieri è passato un po’ in sordina il dato del Pil cinese: attenzione, nonostante altrove leggerete e sentirete altro, quella percentuale nasconde dell’altro. Qualcosa di molto preoccupante. Formalmente, il Pil di Pechino è cresciuto oltre le stime degli analisti al 6,8% nel quarto trimestre del 2016, in linea con le attese del dato sull’intero anno, pari al 6,7%. Questi i dati ufficiali che Pechino ha comunicato al mercato: «È un buon momento per la Cina – spiega Li Wei, economista di Cba – che è migliorata leggermente nella seconda parte dell’anno, grazie alla ripresa del settore immobiliare e all’andamento dei mercati finanziari».
Per gli esperti anche le riforme mirate a ridurre la capacità delle imprese nel settore privato stanno iniziando a dare i loro frutti: «Pechino ha iniziato il 2017 con il piede giusto – continua Li – ma occorre fare attenzione alla ripresa globale e alle conseguenze sull’export cinese». Per l’economista il declino delle esportazioni l’anno scorso si è tradotto in uno 0,5% in meno di crescita del Pil: «Se l’export verso l’Europa o gli Stati Uniti si riprendesse – precisa Li – l’economia cinese quest’anno potrebbe arrivare a crescere del 6,8%». Ma se su questa voce grava pesantemente la minaccia protezionistica di Donald Trump, anche il resto della narrativa appare un po’ troppo rosea, tanto che, fonti vicine al governo cinese, ammettono che l’esecutivo potrebbe annunciare per quest’anno addirittura una crescita inferiore, pari al 6,5%.
Ora, vediamo qualche criticità. Primo, il dato comunicato ieri, seppure in linea con le attese, rappresenta il più lento tasso di crescita da 26 anni, oltretutto con il debito del settore privato che continua a crescere, nonostante la componente di debito addizionale sia in declino. Entriamo nel dettaglio. La crescita stabile della Cina è garantita da un più alto grado di leverage e da bolle su tutti gli assets, dai bonds al bitcoin. Se dovesse esserci un cambio di politica finalizzato al controllo dei rischi finanziari e al taglio del costo degli immobili, tutto questo peserebbe e molto sull’economia del Dragone di quest’anno. Sull’orizzonte di lungo termine, l’economia sembra essere basata unicamente su un debito che continua a crescere, più che su investimenti o consumi. Certo, il dato del Pil ha battuto le aspettative, ma occorre sempre ricordare che la crescita della Cina rimane supportata da un’enorme spesa governativa e da prestiti bancari record, i quali continuano a gonfiare i timori di bolle sugli assets. Inoltre, la continua diminuzione demografica della popolazione in età da lavoro porta con sé una diminuzione dello spazio per aumenti della produttività, un qualcosa che si sostanzia con una rallentamento della crescita potenziale del Paese, già calata lo scorso anno al 7,1% contro il 7,3% del 2015 e stimata attorno al 6,5% entro la fine di questa decade.
Ovviamente, visti dalla prospettiva anemica dell’eurozona, questi sono numeri da sogno, ma non per la Cina. E vediamo in particolare le due criticità di cui ho parlato prima: eccesso di credito e bolla immobiliare. L’altra notte, subito prima della pubblicazione del dato sul Pil, con una mossa definita da tutti gli osservatori «molto strana», la Banca centrale cinese (Pboc) ha iniettato altri 95 miliardi di yuan nel sistema bancario, portando il dato totale per la settimana appena conclusa a 1,13 triliardi di yuan. Ma non solo. Pechino ha permesso alle sue cinque banche più grandi di tagliare i loro requisiti di riserva dell’1%, portandoli al 16%, di fatto liberando liquidità che invece sarebbe dovuta rimanere parcheggiata come cuscinetto: insomma, il sistema finanziario cinese era in crisi di cash, forse in previsione delle vacanze per il Nuovo Anno Lunare.
Dopo l’ultimo allentamento, quello del 29 febbraio 2016, ecco che questa nuova mossa dovrebbe liberare nel sistema liquidità pari a 630 miliardi di yuan. Insomma, qualcuno ai piani alti temeva un credit crunch durante il periodo festivo più importante dell’anno in Cina. Tanto più che i costi di finanziamento a breve termine erano schizzati ai massimi da 10 anni, proprio per il timore di una contrazione della liquidità, dando vita a un netto apprezzamento dello yuan, l’ultima cosa che le autorità economiche cinesi vogliono al mondo. Il problema è che l’ultimo sondaggio Reuters dedicato al possibile taglio dei requisiti di riserva per le banche cinesi, vedeva il consensus fissato al terzo trimestre di quest’anno, mentre si è dovuti intervenire quando non era nemmeno terminato il primo mese: una mossa del genere metterà decisamente pressione sullo yuan e questo ci dimostra come il rischio potenziale sottostante sia stato molto più grande del danno che un yuan in crescita può arrecare sul breve periodo. Nonostante la mossa della Pboc, i tassi money market e i key funding hanno mostrato solo timidi segnali di sollievo, restando ben al di sopra dei livelli normali. Qualcosa di estremamente rotto sta emergendo nell’economia cinese.
E a confermarlo c’è un’altra mossa quantomeno irrituale messa in campo overnight dalla Banca centrale cinese, la quale ha offerto alle sue principali banche commerciali una facility di liquidità temporanea per 28 giorni al fine di evitare un credit crunch in vista delle festività, di fatto un balsamo per garantire una più efficace trasmissione del credito in vista della lunga pausa lavorativa. A livello pratico, il costo del finanziamento sarà più o meno simile a quello delle operazioni open-market in quel periodo di 28 giorni, cioè attorno al 2,55%. Quindi, non solo liberazione di liquidità attraverso il taglio dei requisiti di riserva, ma un altro strumento di intervento che pare aprire una stagione nuova per la politica finanziaria cinese: evoluzione o emergenza?
C’è poi la criticità della bolla immobiliare, la quale sembra aver colpito il primo spillo, incapace di farla esplodere, ma, certamente, di farla sgonfiare un pochino. Dopo parecchi mesi di crescita dei prezzi immobiliari nel mercato cinese, anche se quasi tutta relegata nelle città di terza fascia, l’altro giorno il National Bureau of Statistics ha certificato che la crescita media mensile dei prezzi immobiliari in Cina ha continuato a rallentare a dicembre rispetto al mese precedente nelle 70 città tracciate dall’NBS e questa volta il calo ha impattato anche le formalmente intoccabili città di prima fascia, Tier 1.
I prezzi degli immobili sul mercato primario sono aumentati dello 0,4% su base mensile dopo l’aggiustamento stagionale, soppesato in base alla popolazione, a dicembre, un tasso di crescita inferiore a quello di novembre: su 70 città monitorate, 61 hanno vista un aumento dei prezzi a dicembre rispetto al mese prima, lo stesso numero registrato a novembre. Ma, come ci mostra il grafico, è su base annua ponderata alla popolazione che abbiamo la prima conferma che la bolla immobiliare cinese è finalmente stata intaccata, visto che i prezzi nelle 70 città monitorate sono saliti del 12,7%, meno del tasso annuo del 12,9% di novembre. Si tratta del primo calo della crescita dei prezzi immobiliari su base annua dopo 19 mesi di continua crescita: il proverbiale canarino nella miniera? Staremo a vedere, dopo la pausa festiva la Cina tornerà a far parlare di sé. Statene certi.