Il quadro si sta delineando e, con il passare del tempo, la dinamica rischia di diventare strutturale. Il discorso di Donald Trump venerdì scorso, tutto basato su toni ampiamente protezionistici e declinato nel concetto parossistico di America First, pare abbia innervosito gli investitori, alla ricerca di maggiori e più approfondite informazioni sulla politica economica del 45° presidente degli Stati Uniti. Risultato, ieri in Asia il dollaro si è indebolito contro tutte le valute, mandando a gambe all’aria Tokyo. L’indice Nikkei ha chiuso a -1,3% e anche la Cina è rimasta debole, con Hong Kong piatta e Shanghai +0,17%: ma il segnale che la tensione sta montando sta soprattutto nella valutazione dell’oro, il bene rifugio che tesaurizza le aspettative di crisi, in rialzo dello 0,98% a 1,216,7 dollari per oncia.
E, come era ovvio, a temere maggiormente le mosse di Washington è stata la Cina, i cui media di Stato hanno messo in guardia, nel corso della cerimonia di inaugurazione di Trump a presidente Usa, dai pericoli cui va incontro la democrazia. E a Pechino tira aria di rivoluzione interna. Si allunga infatti l’elenco di cariche del presidente cinese, Xi Jinping, da domenica a capo di una nuova Commissione centrale per lo sviluppo integrato militare e civile, stando a quanto deciso da una riunione del Partito Comunista Cinese, il vertice allargato a 25 membri del partito, presieduto dallo stesso Xi. La nuova Commissione sarà «l’agenzia centrale con il compito di prendere decisioni, deliberare e coordinare le questioni riguardanti lo sviluppo integrato militare e civile a livello nazionale»: e il fatto che la scorsa settimana Taiwan abbia dato vita a esercitazioni per contrastare un’invasione militare non fa propendere per tempi sereni di fronte a noi.
Ma non basta, perché la tanto temuta guerra valutaria da cui vi metto in guardia da tempo è ormai realtà. Negli ultimi due anni lo yuan non ha fatto altro che scendere, toccando il valore minimo raggiunto dal 1994. Anche per questo gli investitori cinesi hanno cercato di cambiare la moneta locale e di portare fuori dal Paese i loro capitali. Ma ora il governo di Pechino sta cercando di “regolamentare” la situazione: oggi qualsiasi pagamento all’estero superiore ai cinque milioni di dollari deve essere sottoposto al nulla osta delle autorità centrali. Inoltre, stando a documenti ottenuti in esclusiva dal South China Morning Post, fino a settembre dell’anno prossimo verranno vietati gli accordi che prevedono investimenti all’estero superiori ai dieci miliardi di dollari, le acquisizioni e le fusioni superiori al miliardo che esulino dal core business aziendale e gli investimenti nel settore immobiliare che siano superiori al miliardo. Stando a quanto riportava ieri il Financial Times, le ultime misure prese dal sistema bancario cinese, obbligherebbero le banche di Shanghai a fare rientrare 100 yuan per ogni 160 di cui autorizzano l’uscita dal Paese e quelle di Pechino addirittura di 100 ogni 80. Il risultato è che per le aziende cinesi è diventato complicato anche pagare le fatture all’estero e per quelle occidentali rimpatriare i dividendi.
Guerra, per il semplice fatto che i primi giorni di Donald Trump da presidente degli Stati Uniti iniziano con il dollaro in retromarcia. Il biglietto verde sta perdendo terreno sulle principali piazze finanziarie ed è sceso a 1,073 su euro, da 1,070 di venerdì: si tratta dei minimi delle ultime cinque settimane nei confronti dell’euro. Il calo arriva dopo un forte rally seguito all’elezione di Trump alla presidenza lo scorso novembre. In un contesto di totale assenza di nuovi dati macroeconomici, l’andamento della valuta Usa viene spiegato quindi unicamente con l’incertezza e la paura che la nuova amministrazione possa varare misure protezionistiche: i nuovi timori stanno spingendo gli operatori a vendere dollari in grande quantità, tanto più che il biglietto verde indietreggia anche nei confronti delle principali valute dell’Asia. Di conseguenza, il recupero dello yen ha subito innescato perdite tra i grandi esportatori della piazza di Tokyo che ha chiuso la prima giornata della settimana in perdita.
E a confermarci la storicità del momento e dei cambiamenti in atto ci ha pensato qualcuno che di determinate dinamiche se ne intende, l’ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, a detta del quale «occorre togliere immediatamente le sanzioni alla Russia. Giochiamo d’anticipo, senza lasciare agli Stati Uniti un ruolo privilegiato nel rapporto con Mosca». Per Prodi, «l’Ue deve mettersi in campo per evitare che, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’asse Mosca-Washington si rafforzi, lasciando spiazzato il Vecchio continente», il quale sta pagando a caro prezzo la rappresaglia commerciale imposta da Washington e benedetta da Berlino dopo l’annessione della Crimea. «Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia», spiegava Prodi in un’intervista a La Stampa, ricorrendo a un proverbio calabrese: «L’Europa è per ora inesistente. A me pare che non abbia proprio reagito davanti a dichiarazioni di Trump che segnano una rivoluzione nei rapporti con l’Ue. Mi meraviglia che nessuno abbia sentito l’esigenza di un vertice straordinario».
Poi, il Professore va anche oltre, arrivando a scomodare una sensazione che io ho fatto mia parecchio tempo fa, come potete testimoniare. Quando si chiede a Prodi un commento alla mancata reazione della Germania alle dichiarazioni di Trump, il Professore vede dietro questo silenzio «un dubbio che aleggia»: ovvero, che «possa essere la Germania a voler abbandonare l’euro. Comincia a nascere in me il dubbio che la Germania si tenga una strategia di riserva: fare da sola». Il tutto mentre «Trump ma anche il populismo europeo interpretano il malessere della classe media, ma anche operaia».
Per Prodi è «un fenomeno chiarissimo: la Brexit vince nei sobborghi popolari e non a Londra; Trump nel Mid West, certo non a New York o in California. E il Movimento Cinque Stelle? Vince nelle borgate romane, non ai Parioli». Tentazione di tornare in campo? Non lo escluderei. Una cosa è certa, però: siamo a uno snodo storico enorme, sia a livello politico che, soprattutto, delle dinamiche economiche globali. Non saperlo interpretare e dominare sarebbe un errore mortale per un’Europa che già oggi appare sull’orlo di una crisi d’identità finale: mi chiedo, è Jean-Claude Juncker l’uomo giusto per governare una transizione simile? Avete sentito una singola parola uscire dalla sua bocca che non fosse una mera reazione di pancia alle provocazioni protezionistiche di Trump? Davvero possiamo permetterci, in un momento simile, di trattare la Russia come un nemico e non un alleato o, quantomeno, un partner?
Romano Prodi non ha una ragione, ne ha cento. Il problema è che se manca la volontà politica e a prevalere sono le regole dei clan, quello del Nord Europa guidato dalla Germana avrà sempre la meglio e sappiamo benissimo che Angela Merkel ha un’unica priorità in mente: vincere le elezioni di settembre e salvarsi la pelle politicamente. Possiamo permetterci otto mesi di immobilismo o navigazione a vista per non scomodare troppo il governo tedesco? Oltretutto con due appuntamenti ormai alle porte come le elezioni in Olanda e le presidenziali francesi.
Occorre darsi un’agenda e avere una sola voce, la quale dovrebbe parlare forte e chiaro con Trump da subito, mettendo le cose in chiaro: come vedete, infatti, il presidente Usa sembra non contemplare nemmeno l’Ue come interlocutore, non avendo in agenda alcun incontro ufficiale o viaggio diplomatico, cosa che invece ha già organizzato con quello che sarà il suo partner privilegiato, Israele.
Per quanto sia lontano anni luce dal mio modo di pensare, questa volta Romano Prodi ha colto nel segno: in un momento simile, inazione politica ed economica significano la fine. Qualcuno batta un colpo: il problema è capire chi sia in grado e disposto a farlo.