Sarebbe un “grande problema” se la Commissione Ue dovesse aprire una procedura di infrazione a carico dell’Italia. Un’osservazione all’apparenza ovvia (non è uno scherzo rivedere entrate e uscite per 3,4 miliardi, come prevedono le richieste di Bruxelles) almeno in tempi normali. Ma questi non sono tempi normali, come lasciano intendere vari segnali. L’evoluzione della situazione politica lascia la porta aperta a elezioni anticipate che non porterebbero probabilmente a un risultato stabile. Dopo la bocciatura dell’agenzia canadese Dbrs, si profila il rischio di una nuova retrocessione. 



Il 10 febbraio uscirà la pagella di Moody’s che a dicembre ha abbassato l’outlook sul nostro Paese da stabile a negativo. “Un rinnovato impeto per riforme strutturali profonde potrebbe essere positivo per il rating dell’Italia”, commenta la vice-presidente Kathrin Muehlbronner. Ma, data la situazione, sembra più un cortese appello alla speranza che non un’effettiva convinzione: la spinta riformatrice, congelata da Matteo Renzi nello sciagurato tentativo di vincere il referendum, non è all’orizzonte. E i mercati finanziari ne stanno prendendo atto e alcune parole cancellate dal vocabolario rischiano di tornare di moda. 



Si riparla così di spread, rimbalzato giovedì a un massimo di 228 punti nei confronti del Bund tedesco. Siamo ancora ben lontani dalle vette toccate durante la crisi del 2011/12, ma nel giro di meno due mesi la forbice è più che raddoppiata, nonostante gli acquisti operati dalla Bce che ha assorbito in questi anni il 21% del debito pubblico italiano. Ancora più inquietante il confronto con i titoli spagnoli. Rispetto ai Bonos madrileni, i Btp accusano un ritardo di 70 punti base, tanto quanto nel 2012, prima che Mario Draghi si impegnasse a fare “tutto quanto è necessario” per salvare l’euro.



È doloroso il confronto con la Spagna. Cinque anni fa il sistema bancario di Madrid era in ginocchio, stremato dalla crisi immobiliare. Fu allora che il governo decise di rivolgersi all’Unione europea, per ottenere i capitali necessari per ricapitalizzare il sistema. Bruxelles impose una medicina amara, con forti tagli al bilancio pubblico (compresa la tredicesima degli statali) e una drastica riforma del mercato del lavoro, premiata dai forti investimenti dell’industria automobilistica tedesca nel Paese. Sul fronte delle banche, intanto, ci fu un durissimo braccio di ferro tra la maggioranza e gli ispettori della Ue: prevalse Bruxelles che impose l’allontanamento di una parte cospicua della classe dirigente del credito. Riforme dure, sostenute nonostante la crescente opposizione nel Paese, sia da sinistra che per la spinta centrifuga dei vari separatismi, e il peso delle varie inchieste della magistratura sulla corruzione del patito di maggioranza. 

Cinque anni dopo la Spagna, che è tutt’altro che un Paradiso visto l’alto tasso di disoccupazione e gli indici di povertà elevati, ha comunque fatto rilevanti passi un avanti. Il Pil ha chiuso il 2016 con un tasso di crescita del 2,8%, più di tre volte si quanto ha saputo fare l’Italia. Il sistema bancario appare solido, mentre il debito pubblico, pur cresciuto nel corso degli anni di crisi, è una trentina di punti inferiore a quello italiano. 

Insomma, la forbice si è allargata anche nei confronti di un Paese che, all’inizio della crisi, appariva in condizioni peggiori delle nostre. Al contrario, il risanamento delle banche italiane è appena cominciato e promette di essere assai doloroso. Soprattutto ora, quando lo Stato dovrà far fonte a promesse pre-elettorali che non hanno introdotto alcun elemento di riforma, ma rischiano di rivelarsi assai costose e si profila il rischio di un calo delle entrate fiscali rispetto a previsioni troppo ottimiste. Si giustifica così la “grave preoccupazione” di Padoan che, tra l’altro, rischia di dover fare i conti con l’ascesa dei tassi legata al quadro internazionale. 

L’Italia, insomma, sembra condannata a vivere ancora in una perenne condizione dì emergenza, condannata a comprimere il fabbisogno pubblico a danno degli investimenti senza per questo emanciparsi dalla schiavitù degli interessi sul debito, comunque destinati a crescere, come impone la necessità di raccogliere altri 200 miliardi entro il 31 dicembre. Il Bel Paese è incastrato in un circolo vizioso da cui rischia di non uscire senza un deciso cambio di rotta. Probabilmente assai più drastico di quello vissuto dalla Spagna ai tempi del risanamento delle banche. 

In assenza di capitali nazionali o in arrivo da fuori (ipotesi difficile ai tempi della presidenza Trump), l’unica soluzione passa per la mutualizzazione di una parte dei debiti dell’Europa più debole a carico della Comunità. Una soluzione che potrebbe portare beneficio anche ai creditori, premiati da una ripresa economica che in parte potrebbe compensare gli effetti del protezionismo Usa. 

In questa direzione si sta muovendo la Bce, nonostante il secco no già arrivato da Berlino. Un nein comprensibile, perché chiedere ai tedeschi di intervenire a favore dell’Europa mediterranea equivale a favorire una quasi certa sconfitta elettorale di Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble. Ma così la coesione dell’Ue viene sottoposta a uno stress che va ad aggiungersi alle pressioni in arrivo da Washington.