Il nuovo anno è iniziato con le tre grandi banche centrali dell’emisfero Ovest in posizioni differenziate. La Fed vive la prosecuzione dell’espansione economica timidamente iniziata ancora nel 2009, che ha portato il sistema economico Usa a livello di massima occupazione. La Bank of Japan, dopo anni di spinta priva di timidezza, assistita anche dal lato fiscale, continua nel sostegno all’economia domestica. La Bce centrale europea continua a sostenere lo sviluppo dell’economia della zona nonostante gli ormai continui segnali di superamento delle difficoltà che la zona euro si è spesso voluta imporre (indimenticabile la scelta di alzare i tassi proprio all’inizio della Grande Recessione, aiutata dall’allora chief economist tedesco Juergen Stark).
Oltre Atlantico troviamo una Federal Reserve che deve adeguare le proprie aspettative alla sorpresa, per ora ancora difficilmente interpretabile, del presidenza Donald Trump. La sorpresa è dovuta sia alla personalità del nuovo inquilino della Casa Bianca, sia alle attese preelettorali: alcune già confermate dai primi annunci dopo il 20 gennaio. Nessuna mossa ha tuttavia affrontato direttamente l’agenda eonomico-finanziaria (salvo le sortite protezioniste e la vaga coloritura New Deal del progetto Muro alla frontiera messicana).
Al momento gli analisti restano quindi ancora alle dichiarazioni di intenti pre-elettorali: tenendo sempre conto dell’ormai proverbiale cortocircuito (vincente nell’urna per The Donald) fra gli elettori che “lo hanno preso seriamente e non letteralmente” e viceversa. Resta comunque effettiva la probabilità che politiche di stimolo fiscale potranno aumentare di peso rispetto al recente passato. Fra l’altro l’attuale omogeneità repubblicana nella composizione del congresso Usa sembra rendere più realizzabili i programmi dichiarati (sebbene non vada trascurato il Trump anti-establishment nell’inauguration-address).
Se in ogni caso gli stimoli entreranno in gioco, la nuova amministrazione punterà ad accelerare la crescita economica, naturalmente a prezzo di una tensione inflattiva ed effetti sui tassi di interesse e sul valore del dollaro. Resteranno tuttavia in campo anche i fattori che agivano da freno allo sviluppo economico: la demografia lenta, la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi (la popolazione ricca risparmia più di quella meno ricca, i consumi finali sono circa il 70% del Pil Usa) continueranno a moderare le spinte positive sopra descritte. All’interno dello scenario sinteticamente descritto, le mosse della Fed sono state annunciate con ampio anticipo e minuziose spiegazioni, ci dovremmo quindi aspettare fino a tre rialzi dei tassi durante il 2017, con un debole rischio a favore di un quarto rialzo.
Durante il 2017 potremo assistere anche a cambi nella composizione del consiglio della Fed: una posizione sarà assegnata a un rappresentante del sistema bancario ordinario, l’altra posizione potrebbe mostrare il nome del successore di Janet Yellen, varrà la pena osservare soprattutto la seconda scelta. Vista l’estrazione professionale di Trump e le sue indicazioni politiche, non dovremmo preoccuparci di una marcata aggressività nei rialzi dei tassi (che notoriamente non aiutano il settore immobiliare, soprattutto se indebitato), l’eventuale aggressività della banca centrale potrebbe emergere nella gestione della dimensione del suo bilancio, le frange più conservative del Partito Repubblicano potrebbero puntare qui la loro attenzione.
In Europa capiamo che la banca centrale di Francoforte sta perseguendo lo stesso obiettivo della Fed, ma riconoscendo un ritardo per la zona. Il tapering (la riduzione nel volume di intervento mensile sul mercato obbligazionario ha portato la misura da 80 miliardi a 60 miliardi di acquisti al mese) locale è iniziato, contemporaneamente però a un taglio “nascosto” dei tassi (la possibilità di acquistare titoli sul mercato secondario a rendimenti anche inferiori al -0.40%), l’effetto si è visto sul cambio dell’euro, che si è chiaramente indebolito. I primi segnali di inflazione in ripresa si stanno mostrando, la Bce comunica di non esserne ancora pienamente soddisfatta.
La concomitanza di una ripresa nel volume delle erogazioni bancarie, dei primi segnali di un rialzo dell’inflazione, una occupazione in miglioramento e la debolezza raggiunta dal cambio potrebbero essere sufficienti a modificare le attenzioni del nostro istituto emittente già nel breve termine, qual è l’elemento che spinge alla prudenza? Abbiamo fino a oggi convissuto con una Bce che mostrava due anime: una che si adattava all’ambiente assecondando le necessità delle diverse economie partecipanti, l’altra più rigida, molto più legata a principi di ortodossia visti anche come nordici in contrapposizione all’adattabilità mediterranea.
Colpisce oggi il comportamento della Bce che, di fronte ai primi segnali di successo, continua a mostrare una ferma insoddisfazione, ancora di più colpisce il silenzio di Jens Weidmann (presidente della Bundesbank) sempre critico della condotta riassunta da Draghi. Che abbiano trovato finalmente un accordo? O dobbiamo credere alle ultime parole preoccupate dichiarazioni di Draghi? Se un Paese vuole lasciare la zona monetaria deve pagare il conto, cioè il saldo esistente con il sistema di pagamenti chiamato “Target2”.
La Bce continua comunque a mostrare una forte vicinanza alla Fed: non da ultimo il mandato di Draghi, come quello della Yellen, si conclude virtualmente nel 2018, Già durante quest’anno il tema potrebbe diventare d’attualità, fra cancellerie e mercati. Descrivere le attese e il comportamento della Banca del Giappone appare più semplice, la sua operatività ha seguito una impostazione che ha potuto beneficiare di una maggiore linearità e chiarezza rispetto alla zona Euro (la governance è nettamente meno complessa). La lunga esperienza di un tasso di crescita dell’economia e di inflazione insoddisfacenti hanno eliminato i dubbi iniziali, che invece sono rimasti nella zona euro. L’accoppiata di yield targeting sulla curva dei tassi e di politica fiscale ancora espansiva, producono un effetto positivo sia sulla crescita economica locale che sul tasso di inflazione. Il differenziale esistente nei tassi prevalenti sullo yen in confronto alle altre zone valutarie del mondo ha chiaramente indebolito la divisa dell’arcipelago asiatico, con evidente soddisfazione locale visto che gli obiettivi sia di crescita che di inflazione vengono così resi più raggiungibili.