Quando tre mesi fa si infittirono in Borsa le voci su un’offerta d’acquisto di Axa sulle Generali, queste ultime si guardarono bene dal comprare il 3% di Axa, per bloccarne le mire. Invece, appena si sono diffuse le voci sull’interesse di Banca Intesa ad acquisire il controllo di Generali, il loro capo Philippe Donnet si è precipitato a comprare il 3% di Intesa per bloccarla. Perché due pesi e due misure? Chiaro: perché finire in pasto ad Axa è quel che Donnet desidera, finire sotto il controllo di Intesa significherebbe per Donnet perdere il posto. Basterebbe questa disparità di trattamento per far capire il senso dello scontro in atto sul futuro delle Generali.



Per capire invece quale sarebbe il “meglio” per la compagnia triestina è necessario fare qualche ragionamento in più. Per quanto ieri la Banca d’Italia abbia fatto sapere – tramite La Repubblica – di aver “acceso un faro” sulla vicenda Banca Intesa-Generali (ora sì che siamo tranquilli) non è la luce ad aver scarseggiato negli ultimi anni sulle vicende triestine, ma la vista di chi non sa o non vuol vedere. Nessuno, tra i “vigilanti”, ha potuto o voluto vedere, negli anni, la pessima qualità sostanziale delle relazioni di potere tra le Assicurazioni Generali e il suo azionariato: in primis Mediobanca, col 13%; e poi gli altri soci italiani di rilievo, Caltagirone, De Agostini e Del Vecchio. Tutti in sostanziale conflitto d’interessi. Perché nessuno ha visto?



È evidente e semplice, anche se – appunto – pur essendo alla luce dei riflettori questi pessimi comportamenti sostanziali non determinavano infrazioni a regole specifiche. Ma per capire occorre qualche riflessione preliminare. Le Generali non hanno un “padrone” dalla forza finanziaria e dalla natura “imprenditoriale” adeguate alla loro controllata, cioè nessuno dei quattro soci citati è abbastanza grande da comprarsela tutta, né pratica altrove il mestiere dell’assicuratore, come invece anche in alcune grandi aziende può capitare: Banca Mediolanum ha un azionista di maggioranza relativa che l’ha fondata e l’ha per così dire inventata e la dirige, che è Ennio Doris; o la Vittoria Assicurazioni ha ancora un socio di maggioranza assoluta che di mestiere e da generazioni ha sempre fatto l’assicuratore. Ma sono aziende più piccole, ed è normale – non obbligatorio! – che aziende grandi abbiano un azionariato di investitori finanziari, che in proprio fanno e conoscono attività diverse.



In un mercato sano, le società che non hanno un socio imprenditore si chiamano “public companies”: sono controllate per lo più da un insieme di fondi d’investimento e fondi pensione, che hanno il 2-3% ciascuno, esprimono consiglieri d’amministrazione tecnici, ma non “del mestiere”, e chiedono alle aziende partecipate due cose: dividendi e costante aumento della capitalizzazione di Borsa. Come si ottengano questi risultati, dal loro punto di vista, è compito del management dell’azienda stabilirlo, in totale autonomia. Quindi si sa che se l’azienda va bene è merito del management, e lo si conferma; se va male è colpa del management e lo si cambia.

Inconveniente di questa impostazione: costretti, se vogliono salvare la poltrona, a incrementare ogni anno dividendi e valore di Borsa, i manager di queste società tendono a fare progetti di breve periodo, per conseguire risultati utili a sopravvivere per un altro mandato, e trascurano le strategie di lungo termine, quelle che invece creano valore per il futuro, un futuro dove loro non ci saranno e tendono a trascurare.

E torniamo a Generali: hanno la triste condizioni di essere una public company perchè non hanno in un socio-imprenditore e, contemporaneamente, di essere una società padronale, perché hanno “dentro” quattro padroncini che prevaricano sulle scelte del management e sono attentissimi a impedire che l’una o l’altra decisione dei manager possa creare vantaggi indebiti per l’uno o l’altro azionista. Soffrono delle controindicazioni di entrambi i modelli, e non si giovano dei loro vantaggi.

Basti pensare al settore immobiliare: per una grande compagnia d’assicurazioni, è un’ambito di investimento molto importante. Ebbene, i tre soci “minori” – Caltagirone, De Agostini e Del Vecchio – sono stati e sono tutti e tre importanti investitori immobiliari. Per carità, dietro ogni investimento delle Generali si ergono montagne di perizie per fugare il minimo sospetto che siano stati fatti per compiacere o non-contrastare le scelte d’investimento dei soci: ma la sostanza non cambia, perché il conflitto è nelle cose anche quando non si manifesta palesemente, nei retropensieri, nelle prudenze, nei “lo farei, ma meglio di no” che inquinano le scelte di tutti i giorni. Semplicemente: azionisti del genere, meglio perderli che trovarli.

Caso a parte, Mediobanca: pur avendo solo il 13% del capitale di Generali, e avendo la necessità regolatoria di scendere al 10%, ha sempre comandato lei. Ha sempre sindacato tutte le scelte del management e fatto in modo che esso fosse portato a relazionarsi in modo subalterno con piazzetta Cuccia. Eccezione fu con Alfonso Desiata, che aveva la forza d’animo, l’indipendenza e la credibilità di dissociarsi quando lo riteneva dai diktat di un istituto dove ancora dominava quell’Enrico Cuccia che appare oggi un gigante, a confronto con i suoi tardi epigoni; e più di recente con Mario Greco, chiamato proprio da Mediobanca per rimediare alle disastrose figuracce rimediate nell’epoca della gestione Perissinotto, peraltro da essa stessa promossa, contando su un’acquiescenza del manager che egli poi non incarnò, preferendo giocare in proprio: per cui ne fu punita non l’asseribile (e non del tutto dimostrata) inadeguatezza ma la tardiva autonomia.

Mediobanca ha sempre utilizzato le Generali per sinergie di potere finanziario. Non necessariamente contabili: ma, diciamo così, per fare gioco di squadra. E dentro Mediobanca il potere vero da dieci anni parla francese. In particolare parla francese Vincent Bolloré, il “cavaliere bianco” chiamato in campo dall’ex amministratore delegato Vincenzo Maranghi per bilanciare i soci italiani che lo volevano far fuori. Bolloré è dentro Mediobanca, com’è giusto che sia, solo per fare i propri interessi, che non si limitano di certo a due euro di dividendo in più. Essendo lì dov’è, si è trovato la strada spianata per l’acquisizione a due lire di Telecom Italia. Essendo lì dov’è, avrebbe potuto temere implicazioni negative dalla scandalosa tela nella quale ha imbrigliato Mediaset, forzando forse le regole e sicuramente la decenza dei mercati finanziari di serie A, perché di Mediobanca è azionista anche la Fininvest; ma Bolloré non va per il sottile e se n’è strabattuto.

Da dieci anni Bolloré vuole portare acqua al mulino francese, attraverso questa sua presenza in Mediobanca. Provò a far comprare Fonsai da Groupama, che fu bloccata: forse per il suo bene. Adesso è riuscito a favorire l’insediamento di vertici francesi – Jean Pierre Mustier – a monte di Mediobanca, cioè ai comandi del primo azionista istituzionale dell’istituto che è Unicredit; e a valle, cioè nelle Generali, facendovi nominare come a.d. il francese Philippe Donnet, che ha rapidamente fatto fuori il principale manager italiano, Alberto Minali, bocciando per la sua successione varie candidature italiane.

Tutto per favorire e addirittura forse preparate un take-over sulle Generali da parte del colosso transalpino Axa, da cui provengono Donnet e tre su tre dei top-manager che Donnet ha assunto: interpretazione smentita con sdegno dall’interessato ma evidentissima.

E veniamo all’oggi: è meglio per le Generali diventare una “gamba” importante del gruppo Intesa San Paolo o finire fagocitate nell’orbita francese di Axa? Dal punto di vista dell’azienda, solo con Intesa le competenze assicurative del gruppo triestino potrebbero essere valorizzate. Le attività assicurative di Intesa Vita, pur imponenti, non hanno alle spalle le competenze tecniche e la forza di mercato, anche internazionale, che hanno quelle delle Generali. In questo senso, la compagnia triestina troverebbe un socio “imprenditore” desideroso però di farla crescere e di valorizzarla ed anzi affidare ad essa la crescita delle proprie attività nel settore.

Con Axa, invece, è chiaro che i valori delle Generali quali sono oggi non verrebbero esaltati, come dimostra il fatto che l’attuale management è già stato tutto “francesizzato”. Axa acquisirebbe i clienti di Generali, ma li userebbe ai propri scopi di gruppi che non coincidono con un particolare sviluppo delle attività in Italia e, in generale, del business delle controllate. Tutto deve “fare brodo” per la casa madre.

Guardiamo ai casi di due grandi aziende finanziarie italiane acquisite da padroni francesi: Bnl da Bnp Paribas e Cariparma da Credit agricole. Vanno bene entrambe, ma entrambe sono state svuotate delle loro competenze di bacnhe autonome e sono diventate filiali commerciali. Il bravo capo di Bnl, Fabio Gallia, se n’è andato in Cassa depositi e prestiti a guadagnar meno perché era stufo di fare il capo cassiere; e a Cariparma, guidata a ottime performance da uno dei banchieri più apprezzati del mercato italiano, Giampiero Maioli, non è stata permessa finora da Parigi alcuna mossa sullo scacchiere del credito italiano post-crisi. Filiali commerciali: questo è il destino delle aziende italiane comprate dai francesi.

Per non toccare il tasto dell’”italianità” delle Generali e dal valore profondo che quei 70 miliardi di euro di titoli di Stato italiani oggi nei forzieri del risparmio gestito da Generali restino sotto una regia italiana. Si rischia di passare per nazionalisti, come se fosse un’infamia, in un mondo in cui proprio la Francia sventola da sempre la bandiera nazionalista. Ma, come s’è visto, non serve invocare il tricolore per capire che le Generali in mani francesi finirebbero male. Basta molto meno, basta guardare agli interessi della compagnia.