E’ un bilancio complicato, anche se sarebbe facile oggi, a tamburo battente, stilare un giudizio negativo. I quindici anni dell’euro, che si dovrebbero festeggiare in questi giorni, saranno probabilmente i più complicati da giudicare nella storia dei prossimi anni. L’inizio fu problematico per il cambio molto punitivo nei confronti della nostra lira. Poi ci furono gli indiscriminati aumenti dei prezzi, certamente non vigilati come si doveva, quindi seguì il parziale sollievo per gli interessi che si dovevano pagare sul debito. Infine è arrivata la crisi mondiale che ha travolto tutto, compresa la moneta unica europea e quella che si poteva definire quasi una “speranza popolare”. 



I sondaggi, per quanto valgono, che si stanno facendo in questi giorni, con molta prudenza, segnalano Paesi — Italia compresa — che sembrano spaccati in due. Nelle risposte delle persone, oltre alla diffusa, forse maggioritaria, diffidenza verso questa moneta unica europea, si nota soprattutto l’incertezza e lo smarrimento nel rispondere alla domanda: vuole restare nell’euro o ritornare alla lira? Probabilmente la risposta più vincente, quella che potrebbe essere la più condivisa è questa: è stato un errore entrare nell’euro, ma ora non conviene uscire perché non si riesce a comprendere quali conseguenze può avere. Quindi è una decisione rischiosa. Difficile da scegliere.



La Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dalla Comunità Europea, in questo caso non fa testo. Il Regno Unito non è mai entrato nell’area euro, ha sempre mantenuto la sua sterlina e la sua Banca d’Inghilterra come banca di ultima istanza. Quindi, l’uscita e il fatto che non ci siano stati contraccolpi, ma anzi una leggera fiducia e una crescita della Gran Bretagna non sciolgono i dubbi di chi deve rispondere.

Ci sono invece da considerare alcuni fatti. In primo luogo, l’entrata nell’euro, con il primo gruppo, costò all’Italia uno sforzo non facile (quanti derivati è stato necessario sottoscrivere?), pagando pure una momentanea sovrattassa. Ma poi è arrivato il peggio. Facendo i calcoli, il quindicennio italiano, quest’ultimo quindicennio all’insegna dell’euro, è stato quello della mancata crescita, della frenata dell’Italia, della grande svendita di gran parte di marchi italiani famosi e di settori industriali strategici. Mentre altri Paesi, nonostante la grande crisi, sono cresciuti.



In un paradosso degno della faciloneria e della superficialità della classe dirigente di questo Paese, si può notare che l’Italia, al momento dell’ingresso nell’euro, era tra i Paesi più europeisti, più speranzosi e votati all’Europa come una “grande conquista”, come se fosse un salto di qualità fuori dal “provincialismo” politico italiano.

Mai una simile visione è stata tanto smentita. Ora l’Italia è quasi in gara con Grecia e Francia, probabilmente con altri Paesi, nel sentimento di euroscetticismo che si è diffuso in tutto il continente. Come l’establishment europeo e quello italiano non abbiano compreso questo fatto è davvero incredibile, anche se gli effetti della crisi del 2007 hanno fatto da moltiplicatore negativo. Di fatto, nell’immaginario degli italiani, tra delusione e rassegnazione, l’euro è diventato una sorta di boomerang antieuropeo. Altro che populismo. 

L’euro si inserisce di fatto nelle grandi operazioni finanziarie, per la facilità degli scambi di capitale che hanno provocato le rivolte al di qua e al di là dell’Atlantico: Donald Trump parte dal retroterra del “Tea party”, movimento di destra anti-Wall Street; Bernie Sanders, il democratico che ha conteso la nomination a Hillary Clinton, parte da Occupied Wall Street, che contesta il potere finanziario da sinistra.

Tutti i leader, europei e americani, che hanno sponsorizzato o seguito le manovre “liberalizzanti” della finanza e delle banche, alla fine sono finiti sul banco degli accusati da una rivolta sociale di cui non si conoscono ancora i confini. Il problema è che il nuovo potere declinato dalla finanza è stato trasversalmente condiviso da sinistra e da destra, in un suicidio politico di livello mondiale.

Ritornando all’incertezza sulla risposta italiana alla validità dell’euro: sbagliato entrare, rischioso uscire. Bisogna aggiungere un giudizio scoraggiante di molti cittadini italiani: siamo caduti in una trappola. Questo è forse il sentimento prevalente e non certamente confortante, all’inizio del 2017.

Di fatto, il problema è che tutta l’operazione euro, alla luce della crisi che alcuni avevano addirittura previsto con largo anticipo, per la completa liberalizzazione della finanza, è stata molto contraddittoria. C’è un lato di carattere economico che è più complicato da considerare, ma che fin dall’inizio diversi premi Nobel avevano considerato molto rischioso e in alcuni casi non attuabile.

Senza una politica fiscale unitaria, con economie così differenti, con livelli di vigilanza che si accavallano, con una totale mancanza di condivisione di sacrifici economici e sociali, di piani industriali, con una ridda di regole che si sovrappongono — a volte con lo zelo irritante di un’euroburocrazia da delirio — a quelle nazionali, è difficile pensare a un’Europa anche economicamente unita.

Non c’erano solo pochi economisti neokeynesiani a contestare l’euro, non c’erano solo gli oppositori legati a posizioni di veteronazionalismo. Persino l’ultraliberista, il monetarista Milton Friedman mostrò le sue perplessità e disse che l’esperimento di una moneta comune tra Paesi tanto diversi non era stata mai tentata.

Ma il problema più complesso per l’euro, oggi, è di carattere politico. L’Europa, con le sue continue divisioni, con le su contraddizioni palesi in materia di politica della crescita, di occupazione e soprattutto sul fenomeno dell’immigrazione, rischia un’implosione e un ritorno pericoloso ai nazionalismi. Il fatto che ancora oggi non esista un’unità politica reale, in tema di politca estera, di difesa, di giustizia e che sia tramontato o accantonato ogni tentativo costituzionale è un fatto di per sé inquietante e pericoloso. Per un convinto europeista, per uno che oggi voglia salvare l’Europa unita, la strada maestra sarebbe quella di rimettersi intorno a un tavolo e rinegoziare seriamente, con un nuovo spirito europeistico, i trattati che hanno portato al “sogno” europeo, Proprio perché l’Europa non diventi un “sogno perduto”.

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