Rischiamo davvero un brutto risveglio, perché stiamo fidandoci di falsi miti. Ieri Piazza Affari ha festeggiato i dati sull’attività manifatturiera italiana, la quale nel mese di dicembre si è espansa al ritmo più sostenuto da giugno, segnalando un balzo dell’economia nelle ultime battute del 2016. Nel dettaglio, l’indice PMI sul settore manifatturiero a cura di Markit/Adaci è salito lo scorso mese a 53,2 punti dai 52,2 di novembre, consolidandosi sopra quota 50 che separa le rilevazioni di crescita da quelle di contrazione. Positiva anche l’indagine congiunturale che ha mostrato un rafforzamento anche per quanto riguarda la crescita di ordini e produzione. Il sottoindice relativo ai nuovi ordini, infatti, è passato da 53,2 a 54,7 punti, grazie soprattutto alla domanda proveniente dall’estero. Insomma, siamo un Paese in piena espansione: ve ne siete accorti, per caso? Merito dell’addio di Matteo Renzi? 



Fatevi sempre una domanda in questi casi: perché se il dato manifatturiero europeo è così buono, l’euro è calato di nuovo ieri, tornando in area 1,05 dopo l’1,07 toccato venerdì su alcune piazze asiatiche? Non è che siamo in mano ad algoritmi e non a movimenti reali legati alle realtà macro sottostanti? E se l’euro cala, perché le Borse festeggiano, con lo STOXX 600 in risalita dello 0,5% all’ora di pranzo? Qualcosa non funziona signori e non perché io sia legato a un concetto antiquato di economia e finanza, ma perché non c’è più nulla che risponda a principi reali di mercato: siamo alla sconnessione e manipolazione totale. Ma, come detto, non è solo l’Italia ad aver superato l’esame PMI. Ci sono spunti di ottimismo anche per la Spagna, visto che il PMI manifatturiero a cura di Markit è salito a 55,3 punti dai 54,5 di novembre, un dato che evidenzia come il settore abbia «chiuso il 2016 in positivo, con la crescita tornata ai livelli riportati all’inizio dell’anno. Il quadro è molto più positivo che in estate, quando produzione e nuovi ordini erano in stagnazione», stando al giudizio dell’economista di Markit, Andrew Harker. I nuovi ordini a dicembre, infatti, sono aumentati al ritmo più veloce dall’inizio dell’anno, portandosi a 57,1 da 55,4 del mese precedente. 



Bene, parliamo un attimo di Spagna e facciamolo dando un’occhiata a indicatori seri. Dalla crisi economica del 2008, la Spagna è andata in trend negativo a livello di natalità, tanto che nella prima metà del 2016, sono morte 12.998 persone in più di quelle nate, un calo di nascite del 4,6%. Guardate questo grafico e lasciate perdere per un attimo i sondaggi PMI o la vulgata in base alla quale Madrid senza governo ha visto esplodere l’economia: certo, un’economia di lavoro precario di massa. Messo in prospettiva il dato della natalità, la Spagna sta contraendosi al livelli di 72 persone al giorno, stando all’istituto nazionale di statistica, Ine. Oltretutto, il dato peggiore arriva dalla regione traino del Paese, ovvero la Catalogna, dove il tasso di natalità si è contratto su base annua del 9%, seguita dal -7,4% dell’enclave di Mililla e dal -6% dell’Aragona. 



Per Julio Vinuesa, demografo presso l’Università autonoma di Madrid, «per quanto riguarda la politica demografica, la Spagna ha navigato nel XX secolo senza fare praticamente nulla e non c’è un singolo sintomo del fatto che questa dinamica possa cambiare. Stiamo assistendo a un rapido calo delle nascite e questo non interessa a nessuno. Nel breve termine, questo può sembrare un qualcosa di positivo, perché significa minori spese per famiglie e Stato, ma questo solo perché ormai in questo Paese nessuno più pensa alle conseguenze future di quanto sta accadendo».

E quali sono queste conseguenze? Le principali sono due: crescita più lenta nel medio e contrazione assoluta nel lungo termine. Come ha fatto notare El Pais nell’articolo che ha dedicato alla vicenda, l’economista britannico Paul Wallace, autore del libro “Agequake” che indaga le cause e gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, sostiene che l’investimento più importante per ogni società è quello dedicato al suo rimpiazzamento a livello demogafico. La Spagna, in tal senso, ha fallito, visto che la percentuale di persone tra i 25 e i 29 anni che ancora vivono con i genitori, spesso disoccupati o con lavori precari, supera il 60% del totale, contro tassi sotto il 20% in Germania, Francia e Regno Unito. Al ritmo attuale e in assenza di politiche ad hoc, entro il 2066 la popolazione spagnola, attualmente di 46,4 milioni di persone, scenderà di 5,4 milioni: a vostro modo di vedere, cosa significherà questo per la crescita economica del Paese? Ovvio, il dato PMI ci parla del presente e va festeggiato ma l’economia è pianificazione, non vita giorno per giorno. Ma andiamo oltre. 

Un andamento similare si è registrato anche per le attività manifatturiere di Francia e Germania: per Parigi, la lettura definitiva del PMI di dicembre si è attestata a 53,5 punti (51,7 punti a novembre). «Le condizioni favorevoli della domanda hanno incoraggiato le imprese ad aumentare la produzione, provocando la creazione di posti di lavoro più marcata da cinque anni e mezzo», ha commentato l’economista di Ihs Markit, Alexander Gill. Guardando nel dettaglio, le società hanno incrementato i livelli di occupazione grazie anche al flusso di nuovi ordini più forte da maggio 2011. In Germania, invece, l’indice si è attestato a 55,6 punti (54,3 punti a novembre), lievemente oltre le attese del consenso a 55,5. Guardando all’Eurozona in generale, il PMI manifatturiero, nella lettura definitiva di dicembre, si è attestato a 54,9 punti (53,7 punti a novembre), sui massimi da aprile del 2011 e in linea al preliminare e al consenso. La componente relativa alla produzione è balzata, inoltre, al livello più alto da 32 mesi, portandosi a 56,1 da 54,1. 

Come leggere questi dati? «Dai PMI odierni emerge che l’Eurozona sta approcciando il 2017 in maniera positiva visto che il 2016 si è concluso con un’impennata della produzione», ha puntualizzato Chris Williamson, capo economista di Ihs Markit, aggiungendo che «i responsabili delle politiche economiche della Bce saranno doppiamente contenti nell’osservare come il miglioramento delle previsioni è stato accompagnato dall’innalzamento delle pressioni dei prezzi. Per essere più chiari, il valore più alto in cinque anni e mezzo raggiunto a dicembre dai dati PMI è generalmente in linea con una crescita della produzione manifatturiera all’impressionante tasso di crescita annuo di circa il 4%». Ma non è tutto: «Viviamo una generale crescita della produzione, con tutti i relativi PMI nazionali in aumento, ad eccezione della Grecia, che si trova ancora in uno stato di leggero declino. Anche il livello occupazionale è aumentato durante gli ultimi mesi del 2016. Il tasso di crescita è stato il più veloce in oltre cinque anni in quanto le aziende si stanno preparando ad una maggiore produzione durante i prossimi mesi. Ciò aggiunge ulteriore ottimismo». 

Sul finire, poi, Williamson ha un sussulto di realismo: «Gran parte della crescita della domanda e l’incremento della pressione dei prezzi sono attribuibili alla svalutazione dell’euro. Le imprese spesso hanno citato come ciò abbia reso le esportazioni più competitive, ma hanno anche riportato l’innalzamento dei prezzi di acquisto e l’impennata delle materie prime globali, in particolare del petrolio». 

Ora, per quanto gli americani accetteranno un dollaro così forte da intaccare l’export in maniera assoluta? Per quanto Donald Trump si lanci in proclami trionfalistici, pensate che alla Fed non stiano già ragionando su come rimettere in competizione in biglietto verde con l’euro e lo yen? Non più tardi di una settimana fa, infatti, è emerso l’economic plan del tycoon newyorchese e quello che segue è il passaggio più interessante: «Mentre l’euro fluttua liberamente sui mercati valutari internazionali, questo sistema favorisce l’economia tedesca molto più di quando il Deutsche Mark era ancora in vita. La sopraggiunta debolezza delle economie europee meridionali facenti parte dell’unione monetaria europea tiene così l’euro a un tasso di cambio molto inferiore rispetto al valore che avrebbe una valuta indipendente per la Germania. Questa è una delle ragioni principali per cui gli Stati Uniti hanno un grande deficit commerciale con la Germania, 75 miliardi di dollari nel 2015. Il più ampio problema strutturale è un sistema monetario internazionale afflitto da una diffusa manipolazione della valuta. Naturalmente, una valuta più debole stimola le esportazioni del manipolatore di valuta, scoraggia le importazioni, porta a una bilancia commerciale favorevole e il manipolatore di valuta cresce a scapito dei suoi partners commerciali. Se questa manipolazione non cessa, gli Stati Uniti potrebbero imporre dazi compensativi e difensivi». 

Insomma, per Trump la Germania è una manipolatrice valutaria e sfrutta come dumping il suo surplus commerciale: a vostro modo di vedere, uno che ragiona – giustamente – così, lascerà il super-dollaro distruggere l’economia Usa e favorire la Germania o imporrà davvero i dazi? Infine, Williamson, ha sottolineato altre criticità potenziali: «La ripresa manifatturiera certamente resta vulnerabile per via dei rischi politici, in particolare le elezioni nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania che rappresentano potenziali punti di rottura chiave che potrebbero portare a una forte intensificazione delle incertezze nell’Eurozona nel 2017». Tutto vero, ma ponetevi una domanda: sono mercati normali e legati alla realtà macro quelli che dovrebbero temere le elezioni in Germania, ma non hanno fatto un plissé davanti all’attentato di Istanbul, ignorando il rischio di destabilizzazione in un Paese chiave come la Turchia? Lo ripeto, rischiamo di svegliarci di soprassalto da questa falsa ripresa.