Quando la scorsa settimana l’indice Dow Jones Industrial Average ha sfondato per la prima volta in assoluto quota 20mila punti, il presidente Usa, Donald Trump, ha immediatamente rilanciato uno dei suoi ormai proverbiali tweet, limitandosi a commentare l’accaduto con un “Great”. Ma siamo sicuri che questo sia un traguardo da festeggiare, un qualcosa che ci racconta di un’economia che è in salute? No e prima di entrare nel dettagli vi invito a guardare i tre grafici a fondo pagina, i quali ci spiegano meglio di mille parole la realtà di questo record e di quelli che negli anni passati sono stati via via infranti: il boom del mercato azionario Usa è unicamente frutto del debito, il carburante che lo ha reso possibile. Non a caso, mentre il Dow superava quota 20mila, il debito pubblico americano si avvicinava a grandi passi a quota 20 triliardi di dollari: solo una coincidenza?



No, quei grafici ci mostrano una correlazione netta tra l’indebitamento nazionale e le performance del Dow nel corso degli anni. Parecchi anni. Per esempio, quando Ronald Reagan entrò alla Casa Bianca nel 1991, il debito nazionale degli Stati Uniti aveva appena toccato quota 994 miliardi di dollari e il Dow Jones era a quota 951: il primo dei grafici vi mostra come la medesima ratio e il medesimo trend siano valsi per le seguenti amministrazioni presidenziali. Ci fu soltanto un periodo durante l’amministrazione Clinton in cui il Dow superò il livello comparativo del debito pubblico, ma bastò un aggiustamento durante gli anni di Bush per riportare la correlazione al suo posto.



Cosa significa questo, in soldoni? Che gli Stati Uniti hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi per decenni interi e che la loro prosperità è stata alimentata dalla più colossale sbornia debitoria della storia mondiale: il tutto, fingendo che non fosse così. E pagandone, a ogni scoppio di bolla, le conseguenze. Peccato che, data la finanziarizzazione in atto, la tempesta non resti confinata negli Usa, ma faccia piovere a dirotto in tutto il mondo. Il Dow Jones non sarebbe mai arrivato a quota 20mila punti, se Barack Obama e il Congresso non avessero autorizzato debito extra per 9,3 triliardi di dollari negli ultimi otto anni: questa non è economia e nemmeno finanza, è follia. Peccato che i media cosiddetti autorevoli, statunitensi, ma anche europei, stiano vendendo la notizia del Dow a 20mila punti come un risultato storico da festeggiare. D’altronde, il Dow è generalmente riconosciuto come il miglior misuratore della salute del mercato fin da quando, nel 1986, la sua tracciatura ha segnato le analisi e le prospettive di esperti che hanno lavorato nel corso di 22 presidenze, 22 recessioni, una grande depressione, due crolli e innumerevoli rally e correzioni.



Insomma, per i media il Dow è Vangelo: un indice che triplica il suo valore dal marzo 2009 a oggi, non può che essere tale. Soltanto dalla vittoria di Donald Trump, l’8 novembre scorso, il Dow ha guadagnato 2150 punti. L’America era in piena forma? No, visto che il dato del Pil relativo al quarto trimestre del 2016 reso noto venerdì parlava di +1,6% contro aspettative del 2,1% e Barack Obama sia così diventato il primo presidente della storia americana a non aver conosciuto un singolo trimestre con il Pil sopra il 3%. Questo, nonostante gli acquisti monstre e i tassi a zero della Fed: eccola la ripresa obamiana incensata da Repubblica e Sole24Ore. E adesso?

Se la correlazione storica è valida e se Donald Trump intende vedere il Dow a quota 30mila, occorrerà aumentare il debito di un’altra decina di triliardi, portandolo in area 30. Peccato che qualsiasi economista serio direbbe che, stante la situazione già presente, ogni dollaro addizionale di debito potrebbe solo distruggere il futuro degli Usa, visto che prima o poi questa bolla colossale, come tutte le bolle, esploderà. Ma chissenefrega se ragionate come Todd Morgan, numero uno della Bel Air Investment Advisors, il quale intervistato da Cnbc ha detto chiaramente che «il mercato sale sempre con il passare del tempo, stiamo dicendo ai nostri clienti di pensare sul lungo termine e restare in corsa. Penso che vedrò il Dow a 30mila nel corso della mia vita e i miei nipoti, nel corso della loro, lo vedranno a 50mila». Ovviamente tutti sperano che il mercato continui a crescere, ma nessuno, almeno in buona fede, può negare che già oggi abbiamo a che fare con valutazioni degli assets a livelli altissimi e l’unico modo per far continuare la festa è alimentarla con sempre maggiori iniezioni di debito.

E poi, chi ha beneficiato di questo rally dell’azionario, alimentato grazie al debito che tutti pagheranno, quando arriverà la resa dei conti? Sono bastati quattro giorni di presidenza Trump a portare con sé il cosiddetto breakthrough per il mercato: le promesse di più lavoro, rafforzamento dell’economia e aumenti salariali hanno messo il turbo a Wall Street ma c’è anche l’altra faccia della medaglia da considerare. Il cosiddetto Trump-rally ha generato 2,2 triliardi di paper gains dal giorno dell’elezione per il Wilshire 5000 Total Stock Index, peccato che soltanto il 52% degli americani interpellati da Gallup abbia detto di avere denaro investito in titoli azionari, il più basso tasso di detenzione azionaria nei 19 anni di tracciatura del dato da parte dell’istituto demoscopico Usa e in netto calo dal 65% del 2007.

Mettiamoci l’anima in pace, il giochino non può durare in eterno. Per decenni, il debito Usa è cresciuto molto più velocemente di quanto non abbia fatto il Pil, una situazione insostenibile che viene spiegata al primo anno di economia: perché a furia di accumulare debito, prima o poi il sistema finanziario non sarà più in grado di reggere gli squilibri. Quanto si potrà ancora andare avanti prima che la bolla esploda, regalandoci un 2008 al quadrato? Non lo so, troppi i magheggi fatti finora e che sono stati in grado di rinviare l’appuntamento con il redde rationem, ma penso che la spericolata politica economica di Trump, se si sostanzierà nei fatti, potrebbe essere un ottimo accelerante per l’incendio. È semplice: il presidente continuerà a far suonare l’orchestra sul Titanic o avrà il coraggio di somministrare all’America l’amara medicina finanziaria di cui ha bisogno?

Certo, intervenire sul debito Usa adesso o nell’immediato futuro porterà con sé immediate conseguenze negative a livello economico, ma continuare a calciare in avanti il barattolo, a cosa ci porterà? Rinviare l’inevitabile indefinitamente è soltanto incoscienza, perché a un certo punto le leggi economiche della sostenibilità entreranno in gioco per riportare un minimo di ordine e sanità mentale: quindi, celebriamo pure il Dow a 20mila punti, ma, attenzione, prima di vederlo a 30mila è facile che ci toccherà testimoniarne il ritorno a 10mila. E nonostante io ritenga la politica monetaria giapponese folle, almeno in quel Paese i quadri intermedi del governo che sovraintendono alle scelte di politica economica hanno le idee chiare su quanto sta per accadere in ambito globale, “grazie” alle annunciate politiche di Trump. Stando a quanto riportato venerdì dalla Reuters, «il Giappone si sta preparando per tutte le possibili contingenze in ambito di colloqui commerciali con gli Stati Uniti», questo dopo il ritiro degli Usa dalla Trans-Pacific Partnership la scorsa settimana. Il premier, Shinzo Abe, vedrà il presidente Usa il mese prossimo a Washington e allora si parlerà, con ogni probabilità, di un accordo commerciale bilaterale, esattamente come quello che Trump sta già discutendo con la premier britannica, Theresa May.

Parlando a una conferenza stampa, il capo di gabinetto, Yoshihide Suga, è stato chiaro: «È vero che ci stiamo preparando a rispondere a qualsiasi situazione possibile. Noi manterremo il nostro scenario ideale, ovvero il mantenimento del Tpp, ma questo non significa che siamo inflessibili. Dobbiamo preparare l’ombrello per un giorno di pioggia. Ora è ancora presto per decidere quale tipo di ombrello portare». Loro, però, si stanno preparando. L’Europa pensa invece che il sole del Qe brillerà per sempre in cielo.