“Le riforme non si fermano”, ha detto il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni rilevando il testimone di palazzo Chigi dal suo predecessore – e tuttora segretario di partito – Matteo Renzi. E all’atto pratico sarà un bell’impegno, per l’ex ministro degli Esteri, tener fede a tutti i progetti in corso, perfezionare le riforme già fatte (per esempio quella incompiuta delle Province) e completare le altre. Tra cui, le numerose liberalizzazioni che pressioni lobbistiche e interesse contingenti avevano indotto Renzi a differire.
Un esempio per tutti: la “riserva postale”, cioè l’esclusione dal regime di libera concorrenza della consegna delle raccomandate con cui la Pubblica amministrazione notifica ai cittadini gli atti giudiziari e le multe. Avrebbe dovuto venir meno vari anni fa, se la direttiva europea che lo prescriveva fosse stata applicata con sollecitudine. Doveva poi cessare a giugno scorso. E invece un emendamento del Pd – relatori Silvia Fregolent e Andrea Martella – alla Legge di stabilità 2016 prorogò l’esclusiva di un altro anno, appunto fino al giugno prossimo.
Risultato? Il permanere di una situazione di mercato deformata, in cui si è verificato – parole dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Agcom – “un aumento di costi per una raccomandata di oltre il 100% rispetto al prezzo medio di mercato (11/12 euro contro i 6/7 euro). Si precisa che non sussistono ragioni giuridiche o economiche che giustifichino la scelta di non consentire agli operatori concorrenti di offrire tali servizi” e, bloccando ulteriori aumenti tariffari fino al 2016, l’Agcom ha sottolineato che i costi del servizio in monopolio hanno sino a oggi “generato un extraprofitto, con la conseguenza che i soggetti che hanno usufruito di tale servizio (cittadini e Pa) hanno corrisposto un prezzo più elevato di quello orientato ai costi, senza avere la possibilità di rivolgere le proprie preferenze a favore di altri fornitori”.
Il business delle raccomandate “di Stato” vale almeno 300 milioni di euro all’anno ed è, appunto, senza concorrenti. Inoltre non teme, rispetto a molti altri servizi postali, la fatale erosione delle consegne “fisiche” di corrispondenza indotta dal diffondersi dell’uso di Internet. Incassi sicuri, dunque: che fanno gola.
Anche perché lo scorso anno, sulla base dell’attuale perimetro di attività del gruppo, il governo ha quotato in Borsa le Poste, collocandone al listino il 40% del e ricavandoci 3,4 miliardi di euro, cioè più della metà dei proventi da privatizzazioni attesi (ma non attuati!) in base alla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2016.
Gli operatori privati cosa temono, quest’anno? Banalmente, paventano che questa logica malsana che ha indotto al rinvio dell’eliminazione della riserva di legge si riproponga quest’anno in funzione del possibile collocamento in Borsa di una nuova tranche del capitale delle Poste, com’è stato fatto a suo tempo con Eni ed Enel. Lo Stato è famelico di proventi e potrebbe quotare un’altra tranche rincuorato dal fatto che, restando sopra il 34% del capitale, il controllo dell’azienda resta assicurato, nel senso che chiunque volesse governare una società quotata “soffiando” il potere al maggior singolo azionista dovrebbe a quel punto lanciare un’Opa, che lo Stato avrebbe i poteri per bloccare…
In realtà, come sottolineò all’epoca dell’ultima proroga Luca Palermo, presidente dell’associazione degli operatori postali privati Fise Are, “i mercati finanziari già sanno che la riserva sarà abrogata e quindi non si può giustificare la proroga come una scelta volta ad apprezzare il valore in Borsa del gruppo Poste italiane”. In effetti, il segmento di mercato delle raccomandate della Pubblica amministrazione per gli atti giudiziari e le multe vale oggi meno dell’1% dei ricavi delle Poste. Quindi i danni dalla completa liberalizzazione del servizio sarebbero irrisori per il bilancio delle Poste e “potrebbero garantire – sempre secondo Palermo – maggiore efficienza, prezzi più bassi per i consumatori e servizi di maggiore qualità”.
Il particolare, sconcertante è che l’abolizione di questa “riserva” recepirebbe non solo la direttiva europea e la raccomandazione dell’Agcom ma anche le indicazioni dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato (Antitrust). Proprio l’Antitrust ha più volte sottolineato come quella protezione “non appare fondata su motivazioni di carattere pubblicistico o di sicurezza delle notifiche stesse”. Le ragioni di ordine pubblico (e di sicurezza) addotte dal legislatore per giustificare la proroga sono, secondo l’Antitrust, ormai superati nella prassi, in quanto gran parte di questi servizi è svolta in regime di appalto da operatori privati che operano attraverso i messi notificatori. Già da tempo infatti varie amministrazioni pubbliche hanno posto a gara alcuni servizi di notifica.
Da notare che, oltre all’Italia, un’analoga riserva di legge sul recapito degli atti giudiziari è presente soltanto in Portogallo e in Ungheria, mentre 25 dei 28 Stati membri dell’Ue hanno provveduto a liberalizzare questo segmento in coerenza con la direttiva Ue del 2008…