La cosa non stupisce, visto l’andamento registrato, ma fa pur sempre il suo effetto: il 2016 è stato un anno in deflazione per l’Italia, qualcosa che non accadeva dal 1959. Stando ai dati resi noti ieri dall’Istat, nella media annuale i prezzi al consumo hanno registrato una variazione negativa pari allo 0,1%. L’inflazione di fondo, calcolata al netto degli alimentari freschi e dei prodotti energetici, è rimasta invece in territorio positivo (+0,5%), pur rallentando dal +0,7% del 2015. Guardando al dato di dicembre, in base alla stima preliminare l’indice dei prezzi al consumo è salito dello 0,4% rispetto al mese precedente e dello 0,5% su base annua: l’aumento a livello mensile è legato all’andamento dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+1,9%), degli energetici non regolamentati (+1,1%), degli alimentari non lavorati (+1%) e dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (+0,5%). L’inflazione di fondo ha segnato un +0,6% (da +0,4% del mese precedente), mentre il dato calcolato al netto dei soli beni energetici ha riportato un +0,7% (+0,4% di novembre): dopo trentaquattro mesi di variazioni tendenziali negative, inoltre, i prezzi dei beni sono tornati a vedere il segno più con un +0,1% dal -0,4% di novembre, mentre è accelerato il tasso di crescita dei prezzi dei servizi, portatosi a +0,9% (+0,5% a novembre). 



Scenario positivo, invece, nel panorama europeo, con i prezzi al consumo dell’eurozona che sono cresciuti più del previsto a dicembre, guidati soprattutto da un aumento dei costi dell’energia oltre che da alimentari, alcool e tabacco e dai servizi. Stando alla stima diffusa da Eurostat, i prezzi nei 19 paesi della moneta unica sono saliti dell’1,1% su base annua, con una rapida accelerazione rispetto al +0,6% di novembre e al +0,5% di ottobre, la lettura più alta dal settembre 2013. L’ufficio di statistica Ue ha stimato per i prezzi dell’energia di dicembre un balzo anno su anno del 2,5%, il primo aumento in oltre un anno. Alimentari, alcool e tabacco hanno registrato un incremento dell’1,2%, così come i servizi. Per quanto riguarda i beni industriali non energetici, i prezzi sono aumentati soltanto dello 0,3% su base annua, in linea con i quattro mesi precedenti. 



Ora resta da vedere come questi numeri saranno accolti dai responsabili politici della Bce, anche se le prospettive di crescita incerte, a causa del fitto numero di appuntamenti elettorali in agenda per il 2017, potrebbero spingere l’Eurotower a una certa cautela ulteriore nel trarre conclusioni su come questi dati influenzeranno il suo obiettivo di mantenimento del tasso di inflazione appena al di sotto del 2%. Ma a darci una visione nitida di come ci sia un solo beneficiario nell’eurozona così come la conosciamo ci pensa il dato dell’inflazione tedesco, reso noto martedì. In quella che rappresenta contemporaneamente una buona e una cattiva notizia per la Bce, il tasso di inflazione di Berlino è salito molto più delle attese in dicembre, toccando il massimo da tre anni. 



I prezzi al consumo tedeschi, armonizzati con quelli di altri Paesi europei (Hicp), sono saliti dell’1,7% su base annua, più del doppio rispetto allo 0,7% di novembre. Era dal luglio 2013 che il tasso annuale di inflazione non arrivava a questi livelli in Germania, più forte delle previsioni dell’1,5%: ma, soprattutto, a un pelo dalla soglie del 2% prefissatasi dalla Bce come target inflazionistico. I driver più forti di questo rialzo sono stati i prezzi in salita di energia e cibo, stando alla scomposizione per voci non armonizzata del dato e l’aumento della bolletta energetica è destinato a tramutarsi in ulteriore pressione inflazionistica. Per Michael Holstein, economista di DZ Bank, «questi sono numeri inflazionistici molto forti, tanto più che oggi gli effetti negativi di base del passato crollo dei prezzi petroliferi stanno svanendo. Di questo passo, l’inflazione in Germania raggiungerà il 2% prefissato dalla Bce nei prossimi mesi». E in cosa si traduce questo epilogo a livello di politica economica? Ovviamente nell’acutizzarsi della richiesta di tagliare ulteriormente gli acquisti del programma di Qe da parte del numero uno della Bundesbank, quel Jens Weidmann che da tempo chiede di porre fine allo shopping obbligazionario, visto soltanto come un aiuto ai Paesi pesantemente indebitati, leggi l’Italia. 

Certo, per Mario Draghi sarà il momento di cantare vittoria sulla deflazione (al netto della sconfitta in patria, però), ma, d’altro canto, significa anche l’accelerazione dell’arrivo del tapering e di un potenziale, primo rialzo dei tassi, un processo che potrebbe accompagnarci verso la prossima slavina deflazionistica una volta che l’aumento dei rendimenti obbligazionari avrà dato vita al price out dell’intervento della Bce sul mercato. Resta il fatto che le pressioni sui prezzi nel resto dell’area euro sono molto più tiepide che in Germania, come avete visto, tanto che in Francia l’Hicp su base annua a dicembre è salito solo allo 0,8% dallo 0,7% di novembre: di fatto, considerando il dato nella sua interezza continentale, Mario Draghi avrebbe ancora qualche argomento per evitare un ripensamento sulla politica di supporto e far terminare il Qe nei tempi previsti, magari continuando a blandire i mercati con la promessa di “andare oltre, se necessario” in caso dovessero innescarsi turbolenze sui rendimenti. 

Inoltre, se l’aumento dei prezzi può essere visto come una buona cosa a livello pan-europeo per la Bce, dal punto di vista dell’economia tedesca non è automatico che sia così, visto che dipende dai consumi privati, un boom del settore costruzioni e la spesa governativa per la crescita. In soldoni, se gli aumenti salariali registrati l’anno scorso in Germania, +2%, hanno spinto i consumi e quindi i prezzi, ora una crescita ulteriore dell’inflazione legata a un rally temporaneo della bolletta energetica potrebbe andare a intaccare proprio la crescita dei salari reali, motivo per il quale molti osservatori si attendono un rallentamento della ripresa economica quest’anno. 

Non a caso, il governo tedesco si attende che l’economia sia cresciuta dell’1,8% nel 2016, mentre per quest’anno già stima un calo all’1,4%, dovuto principalmente al minor numero di giorni lavoratori e a un export più debole (sintomo che incorpora in sé prospettive di rafforzamento dell’euro, anche in vista delle mosse economiche di Donald Trump una volta insediatosi alla Casa Bianca). Ciò che viene visto in salute robusta anche per il 2017 è invece il mercato del lavoro tedesco, visto che l’altro giorno l’Ufficio federale per l’occupazione ha comunicato che il tasso di disoccupazione è sceso più del previsto a dicembre, mantenendo il tasso di senza lavoro al minimi record del 6%, il più basso dalla riunificazione. Nel 2016 per intero, 43,4 milioni di persone avevano un lavoro in Germania, un 1% in più rispetto al 2015 e il decimo anno consecutivo di forza lavoro in espansione. 

Per Frank-Juergen Weise, capo dell’Ufficio federale, «il forte incremento nell’occupazione è durato per molto tempo e, anche se ha patito un rallentamento nei mesi estivi, la domanda per nuovi lavoratori rimane a un livello molto alto». Il numero di senza lavoro, dopo l’aggiustamento stagionale, ha visto un calo di 17mila unità a 2,638 milioni di persone, quando le previsioni parlavano di 5mila unità di calo: ovvero, più di tre volte tante il numero di persone uscite dalla disoccupazione. 

Ora, pensatela come volete sull’euro, ma non ditemi che stiamo parlando della stessa Europa, quando guardiamo a Germania e Italia. E non scomodate le riforme Hartz volute da Gerard Schroeder e costategli la carriera politica: sono state poco più che un Jobs Act un filino più serio. La differenza la fa la mentalità della gente, il costo del lavoro, la tassazione. E l’euro. Piaccia o meno ammetterlo.