Ci siamo: è il momento della vendemmia. La prima – e chissà per quanto tempo unica – fusione tra due ex banche popolari, della categoria violentata dal governo Renzi con l’obbligo di trasformazione in società per azioni, è già sotto attacco speculativo da parte di “mani forti” che vogliono accaparrarsene il controllo. Era chiaro sin da quando i Rottamatori imposero, incomprensibilmente per decreto, la trasformazione delle cooperative bancarie in Spa: caduto il muro dello statuto cooperativo – con il diritto di voto capitario in assemblea (un voto per testa, a prescindere dalla percentuale di azioni possedute) – le ex-Popolari sarebbero diventate prede degli scalatori internazionali. Difese unicamente dalla minore “appetibilità” delle aziende creditizie: che però, tanto per non privarsi di niente, il governo italiano ha in parte ripristinato, con il decreto salva-banche e i 20 miliardi appostati a tutela della stabilità del sistema.
Si vedrà quando sarà possibile chi ha rastrellato le azioni della neonata Banco Bpm, ossia la fusione tra Banco Popolare e Bpm. Ma è un fatto che la fiammata di acquisti è sospetta. L’ultimo “baluardo” scadrà il 27 marzo prossimo, quando – secondo la legge di riforma – verrà meno il limite dei diritti di voto al 5%, e chiunque potrà assumere il controllo del bancone post-fusione con una miliardata di euro. La terza banca italiana disponibile a due lire. È il più nitido degli effetti voluti dalla riforma, ancorché negati dai legislatori. Insomma, appena possibile, Bpm e Banco Popolare, oggi sposi come Banco Bpm, finiranno sotto le bandiere di qualche fondo internazionale. Auguri e figli maschi. Mentre effetti positivi sistemici della mitica riforma proprio non se ne vedono.
Certo, la Bpm e il Banco Popolare, unite, hanno incassato un “upgrade” del rating da parte di Moody’s, e ci sarebbe anche mancato. Ma anche tra gli analisti i più avveduti – come quelli di Intermonte – hanno sottolineato l’importanza della “creazione di un nocciolo duro di azionisti, in quanto questo permetterebbe una maggior continuità e stabilità nella governance del Banco Bpm, potenzialmente scalabile”. Altro che il fantomatico fondo del Qatar, mai realmente interessato al Montepaschi, a dispetto dell’ottimismo disguidante sparso sul mercato a piene mani dai proconsoli renziani a Siena. Se appena appena una banca funziona, se è una ex popolare e non ha nessuno che la controlli sotto un tricolore, diventerà preda, e preda di stranieri: Banco Bpm sarà solo la prima.
Ma intanto che questi effetti, largamente previsti e paventati, si approssimano alla pluriannunciata scadenza, ci si avvicina a grandi passi al vero d-day per tutte le otto banche popolari già diventate società per azioni e in particolare per le ultime due – Popolare di Bari e Popolare di Sondrio – che non hanno ancora fatto harakiri. Il 12 gennaio, giovedì prossimo, il Consiglio di Stato avrà una nuova seduta per deliberare nel merito della sospensiva già pronunciata degli effetti della riforma sia sulle banche ex popolari già diventate spa, sia sulle due ultime popolari che ancora devono diventarlo.
Le prime tremano, perché tra gli effetti sospesi dalla riforma c’è anche quel vero e proprio stupro legale rappresentato dalla limitazione del diritto di recesso, uno dei presidi storici del risparmio pubblico incardinata sia dalla Costituzione che dal diritto europeo. È il diritto di un risparmiatore, socio di una qualsiasi società, a rifiutarsi di restare azionista (o meglio, da quotista diventare azionista) nel caso in cui la società decida a maggioranza di cambiare natura giuridica. La riforma ha limitato questo diritto costituzionale – e non a caso c’è un ricorso alla Consulta che dovrà pronunciarsi a breve – in nome di un interesse superiore, cioè la stabilità patrimoniale degli istituti interessati (stabilità determinata in base ai parametri europei pesantissimi come riscritti dall’European banking authority).
Alla Ubi Banca sono pervenute richieste di recesso per 250 milioni di euro, l’istituto ha detto che ne soddisferà per appena 13 milioni. Uno sfregio alla tutela del risparmio, ma legittimo per la riforma Renzi. Il neofuso Banco Bpm totalizza richieste pendenti per 207 milioni. Se questa sospensiva al riconoscimento dell’ordinario recesso venisse confermata e la discutibile norma finisse abrogata, le banche dovrebbero pagare, svenandosi. Ma che bello.
C’è poi il caso – non si sa se più drammatico o surreale – dalla Popolare di Bari. Doveva celebrare l’assemblea per la trasformazione in Spa il 27 dicembre e, giustamente, il consiglio d’amministrazione ha rinviato la forca, in attesa delle decisioni del Consiglio di Stato del 12. Solo che il governo anziché prorogare il termine del 31 dicembre fissato dalla riforma per la trasformazione in Spa delle banche, pena la revoca della licenza bancaria, non l’ha più prorogato, archiviando l’idea di inserire una norma in tal senso nel cosiddetto decreto Milleproroghe. Questo significa che la Bari se avesse riconfermato la trasformazione in Spa entro il 31 dicembre e quindi prima del pronunciamento del Consiglio di Stato, avrebbe rischiato di essere sbancata dalle cause per danni di chi non vuole la trasformazione; ma d’altronde non trasformandosi, in teoria, rischia (almeno in teoria: perché una simile bestialità non s’è mai vista al mondo) di perdere la licenza nel caso in cui il Consiglio di Stato revocasse la sospensiva. Insomma: comunque si regolino, la Bari e la Sondrio rischiano l’inottemperanza a una norma o all’altra.
Questo mostro giuridico è stato in tutti i modi stigmatizzato da una quantità di osservatori autorevoli: non solo l’Associazione nazionale delle banche popolari, ma anche Francesco Boccia, presidente piddino ma non renziano della commissione Bilancio della Camera. Ma un governo appecoronato all’ex premier Renzi non ha avuto il coraggio di appianare il paradosso. E adesso si aspetta il conto dei danni.