Fin dalla sua nomina come presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni non ha fatto altro che giurare sulla continuità del suo governo con il gabinetto Renzi, anche a rischio di beccarsi l’epiteto di “fotocopia”. In realtà, fin dall’inizio ha mostrato molte discontinuità. Un po’ per il compito che si è dato (gettare ponti politici sopra fossati diventati dei burroni), un po’ per la pressione degli eventi, un po’ per il ruolo che hanno assunto alcuni ministri a cominciare da Carlo Calenda e Marco Minniti, molte cose sono già diverse, dalla politica verso l’immigrazione clandestina alla Libia, dove s’intravede un’apertura al dialogo con il generale Haftar.
Nuovo è senza dubbio l’interventismo in economia. È vero che il salvataggio pubblico del Monte dei Paschi di Siena era già maturato prima, ed è vero che la sconfitta al referendum ha dissolto ogni operazione di mercato, ma Gentiloni non ha perso un minuto prima di dare il via libera a Pier Carlo Padoan. Una netta accelerazione è stata impressa alla fusione tra Bpm e Banco popolare o alla sistemazione delle tre banche “risolte” che vengono acquisite da Ubi. Aspettiamo di sapere che cosa accadrà per la Popolare di Vicenza e Veneto Banca, cioè se ci sarà anche in questo caso un aiuto da parte dei poteri pubblici.
Persino uno scontro che si svolge su un’arena tutta privata come la scalata di Vincent Bolloré a Mediaset ha visto il governo schierarsi, sia pur solo politicamente per il momento, al fianco dell’azienda di Silvio Berlusconi, fino al punto da considerarla strategica per il Paese. Vedremo se alle parole seguiranno dei fatti. È evidente che non ci potranno essere interventi pubblici diretti, ma se l’Agcom accoglierà la richiesta di Mediaset bloccando le quote di Vivendi, sarà evidente l’influenza sia pur indiretta del nuovo clima politico.
Il ministro dello Sviluppo si è distinto come la punta di diamante di questa svolta interventista. Calenda non solo ha fatto propria l’idea di sostenere dei campioni nazionali, ma è giunto a parlare di neo-protezionismo, in un ambiente internazionale che si è fatto sempre più ostile al libero scambio. Non siamo ancora alla fine del laissez faire, ma ci stiamo avvicinando a grandi passi verso un’economia mondiale divisa tra grandi potenze in competizione tra loro anche facendo ricorso a dazi, tariffe, ritorsioni e protezioni di ogni genere. L’Italia non può fare l’utile idiota, per rispettare principi che nessun altro più sostiene, ma di qui a costruire un nuovo paradigma di politica industriale ed economica ce ne corre.
Comunque si giudichi l’inclinazione che emerge dalle parole e dai gesti del governo Gentiloni, emerge un problema di fondo: quanto spazio ha l’Italia in questo nuovo ambiente neo-nazionalista? Davvero poco. Il primo ostacolo è il debito. Il dibattito pubblico continua a rimuoverlo, ma la realtà lo impone all’attenzione di chi deve acquistare i titoli di stato italiani. Sono in scadenza Bot e Btp per 216 miliardi di euro, 30 in più rispetto all’anno scorso. Gli interessi che paga lo Stato sono minimi (0,52%) grazie alla politica monetaria espansiva della Bce. Mario Draghi ha annunciato che non cambierà linea, tuttavia è sottoposto a pressioni molto forti che vengono dalla Germania dove l’inflazione è tornata ad avvicinarsi al 2% (cioè l’obiettivo della banca centrale) e dal sistema bancario e assicurativo che con gli interessi a zero vede gli utili schiacciati sotto il pavimento.
La prossima settimana le prime aste del 2017 daranno un’indicazione. I dati sui prezzi mostrano che l’Italia è ancora in deflazione, quindi ha bisogno ancora a lungo di una politica monetaria molto accondiscendente. Ma il mercato potrà sanzionare in modo negativo questa asimmetria italiana rispetto all’insieme della zona euro.
Un altro grande interrogativo riguarda le riforme, quelle mancate (si pensi al cambiamento del sistema di governo o alla giustizia), quelle incomplete (per esempio la Pubblica amministrazione) e quelle interrotte (come il mercato del lavoro). Dovevano offrire la garanzia che l’Italia si stava muovendo, sia pur con difficoltà e lentezze, nella direzione giusta per ritrovare la via della crescita e della competitività sistemica. A questo punto sarà difficile convincere non tanto gli eurocrati di Bruxelles, ma le vedove scozzesi o i gestori del fondo sovrano norvegese che val la pena comprare titoli italiani, titoli delle imprese e delle banche, non solo dello Stato.
Il nuovo attivismo del governo, dunque, potrà essere anche benemerito, ma rischia di diventare mero velleitarismo. Per mettere radici a quelli che sono oggi soltanto segnali se non proprio messaggi nella bottiglia, bisogna che Gentiloni e i suoi ministri mettano a punto rapidamente una cornice di politica economica e fiscale credibile e coerente. Finiti i fuori d’artificio polemici stile Renzi, occorre davvero mostrare i denti, i quali si affilano solo con il coraggio di disboscare la giungla della spesa corrente e cominciando quel percorso di riduzione delle imposte sui redditi più volte annunciato e rinviato di anno in anno. Sarà questa la vera svolta del governo Gentiloni?