Sembra di risentirlo, Tim Cook, il patron della Apple, quando faceva il paladino della privacy per giustificare il suo no alla Fbi: il Federal Burau of investigation aveva chiesto alla casa di Cupertino l’accesso completo ai dati di un i-phone utilizzato dal terrorista della strage di San Bernardino – 14 morti! Ma la Apple si oppose, sostenendo che il consenso avrebbe creato un precedente molto pericoloso e dato troppo potere agli investigatori rispetto al diritto alla privacy di chi acquista un melafonino. I detective Fbi, per la cronaca, hanno poi saputo accedere da soli ai dati richiesti, senza peraltro che la Apple abbia mai patito alcuna rappresaglia, giudiziaria o economica, dal governo Usa per il suo diniego.
Pochi giorni fa la Cina ha invece intimato alla Apple di eliminare dalle “app” scaricabili entro i confini della Repubblica popolare cinese quella del New York Times, perché il grande e prestigioso quotidiano statunitense ha da sempre una linea editoriale molto critica contro il regime di Pechino: e la Apple non ha fatto né “a” né “ba” e ha obbedito subito. Anche perché – come, guarda caso, proprio quel giorno proprio il New York Times aveva scritto! – il governo cinese ha riconosciuto al grande fornitore cinese di Apple, la famigerata Foxconn, una serie di sgravi fiscali e normativi, chiudendo non uno ma due occhi sulle condizioni subumane in cui lavorano le maestranze della fabbricona i cui costi stracciati di fornitura rendono sempre più pingue l’utile della Apple.
Tutta qui la cronaca, assai chiara la morale: il “politicamente corretto” della Apple è un abito pret-a-porter, che si indossa quando serve perché è elegante e non impegna, ma si toglie non appena gli argomenti della tasca si fanno ultimativi. È contro questo genere di ipocrisia conclamata che, probabilmente, la nuova Casa Bianca di Donald Trump rischia di mietere consensi nell’opinione pubblica “di sinistra”, come del resto sta già facendo attaccando le case automobilistiche che hanno fatto i loro “transplant” in Messico per abbattere i costi di fabbricazione senza per questo abbattere in proporzione i prezzi di vendita delle loro vetture, in modo da guadagnare di più a tutto danno della forza lavoro statunitense.
Nei fatti, la prima grande ondata di globalizzazione produttiva e commerciale – quella che ha appunto utilizzato a man bassa i “transplant” industriali – ha sortito tre effetti, uno benefico e due oggettivamente no. Quello benefico è stato l’aver spalmato uno strato sottile di benessere sulle popolazioni di quelle nazioni caratterizzate dal basso costo del lavoro – la Cina in primis, ma anche il Vietnam, la Corea, la Cambogia, la Tailandia e l’Est Europa – dove quindi una fascia non piccola della popolazione ha trovato cespiti provvidenziali per uscire dal rischio della povertà estrema, quella che implica ancora oggi la morte per fame. Che non a caso, negli ultimi 25 anni, secondo i dati del World Food Programme, si è ridotto di 216 milioni di persone a quota 795 milioni: ancora tantissimi, ma gli esseri umani che grazie anche alla globalizzazione hanno di che nutrirsi equivalgono pur sempre al quadruplo della popolazione italiana.
I due effetti negativi hanno invece colpito i Paesi occidentali dai quali i transplant sono partiti. Innanzitutto una massiccia disoccupazione industriale, che si è vista nelle statistiche di un po’ tutto il mondo (salvo forse proprio gli Usa che con un indice di non-occupati del 4,7% hanno una posizione di oggettivo privilegio: insufficiente per i gusti degli americani, ma – per capirci – di tre volte migliore del quadro italiano). E una perdita complessiva del potere d’acquisto dei beni, solitamente quelli “semidurevoli” come le auto, gli elettrodomestici e l’elettronica, che pur godendo di costi produttivi stracciati – grazie al “neoschiavismo” praticato con la compiacenza dei committenti occidentali nei paesi fornitori – non hanno goduto di corrispondenti sgravi nei prezzi di vendita di quei beni in Occidente.
Tutto ciò sotto la mano benedicente dei democratici americani, che di democratico hanno evidentemente conservato solo quel tanto che connota anche il renzismo: la vernice. E come poteva essere diverso, con la matrice culturale da cui proviene lo stesso Barack Obama – il college di Harvard – che ha formato tutti i guru di Wall Street e delle sue banche-locuste? Non dimentichiamoci il chiarissimo messaggi riformista lanciato nel 2013 all’Europa dalla JpMorgan, la banca più amata dall’ex premier, contro le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori”. Quindi: abbasso l’Fbi, tanto non ci fa perdere quattrini ed è elegante contrastare gli sbirri; e viva la Cina delle 2400 esecuzioni capitali all’anno e del neomedioevo industriale. Come siamo democratici.