“Se si creano 7 milioni di posti di lavoro in 4 anni è vero che possono esserci distorsioni ma i benefici sono talmente maggiori che le distorsioni si ignorano”. Così è sbottato Mario Draghi a Washington di fronte al gotha dell’economia globale riunito per l’appuntamento d’autunno del Fondo monetario internazionale. Molto di più di una difesa d’ufficio delle politiche che stanno consentendo all’economia di mettersi alle spalle la peggior crisi del dopoguerra, ben lungi dall’aver esaurito la sua funzione. Ma il banchiere ha dovuto riconoscere che, nonostante i progressi sul fronte dell’occupazione, sulla crescita dei salari “non ci siamo”.
Un giudizio analogo a quello di molti membri della Federal Reserve che, pur approvando il prossimo autunno dei tassi a dicembre, sono convinti che la crescita modesta dei prezzi, da collegarsi a un aumento deludente dei salari, pregiudicherà il cammino verso tassi normali l’anno prossimo. Il fenomeno è ancor più evidente in Giappone: la Borsa si muove ai massimi dal 1996, percorrendo a ritroso le tappe della lunga deflazione del Sol Levante; il tasso di disoccupazione si ridice a numeri da prefisso telefonico; ma l’encefalogramma dei salari è piatto, in particolare sul fronte dell’occupazione femminile.
La mancata ripresa dei salari si conferma così come il più evidente segnale che l’economia globale è ancora malata, anzi a rischio ricaduta. La classe media ha pagato un prezzo altissimo alla crisi, la ricchezza si è spostata a favore dei più ricchi che, per giunta, saranno i benefattori delle riforme fiscali di Trump. Sistemi sociali indeboliti non hanno anticorpi necessari a evitare guai peggiori, quando (come è inevitabile) il mondo rallenterà la corsa mettendo a rischio consumi e investimenti.
Un paper presentato al Fmi conferma le fosche paure con cui Wolfgang Schaeuble si è congedato dalla missione di ministro delle Finanze di Germania: il pianeta, conferma il report, accusa un indebitamento complessivo pari al 235% del Pil. Il rischio? Il Fmi prevede tassi stabili ed economia in crescita fino al 2020, poi sarà inevitabile un aumento dei tassi che potrebbe avere effetti devastanti: una caduta dei mercati del 15% e del 7% dei prezzi dell’immobiliare, con il risultato di un calo del Pil mondiale dell’1,7%, circa un terzo di quanto successo nel 2008.
Non è un destino inevitabile purché, dopo la valanga di liquidità immessa nel sistema per diluire i costi della crisi, il motore torni a rispondere, senza incepparsi, a partire dai salari, il fenomeno che turba i sonni dei banchieri centrali. Oggi negli Stati Uniti la disoccupazione è scesa su un livello che in passato ha sempre fatto partire l’inflazione salariale. L’Europa raggiungerà questo punto, secondo la Bce, all’inizio del 2019. In tempi normali, visto che la politica monetaria produce i suoi effetti in uno-due anni e deve quindi essere preventiva, la Fed dovrebbe già essere da tempo in fase restrittiva (quando ancora non siamo al neutrale) e la Bce dovrebbe essere neutrale (quando invece è ancora espansiva).
Questo ritardo dimostra che le banche centrali non sono cieche nella loro fede nella curva di Phillips, ovvero la regola individuata dal neozelandese William Philips per cui i salari salgono quando la disoccupazione scende e viceversa. La curva ha funzionato per decenni, per la gloria di un genio che in vita fece un po’ di tutto salvo che l’economista accademico: cacciatore di coccodrilli in Australia, minatore e studente serale in ingegneria. Nel 1937 andò a cercare fortuna in Cina. Quando la Cina fu invasa dai giapponesi scappò in Russia, prese la Transiberiana e arrivò a Londra in tempo per essere rispedito a Singapore come pilota della Raf. C’era la guerra e i giapponesi lo fecero prigioniero in Indonesia per tre anni e mezzo. Incapace di stare con le mani in mano, imparò il cinese, costruì una piccola radio per comunicare con l’esterno e dei rudimentali bollitori elettrici che permisero a tutti i prigionieri di preparare il tè secondo i sacrosanti usi britannici. Finita la guerra, completò a Londra gli studi di ingegneria, ma avendo ancora vivo il ricordo del campo di prigionia e della capacità di autoregolazione di quel microcosmo umano decise di approfondire e si prese una seconda laurea in sociologia.
Un uomo dalle mille risorse cui l’Occidente deve una regola che ha funzionato, ma non funziona più. La ragione? Quando la curva di Phillips funzionava bene il mondo del lavoro era omogeneo, era organizzato sindacalmente e aveva un mercato su base nazionale. La Germania di oggi, che ha ancora un mondo del lavoro relativamente omogeneo e regolato, un sindacato ancora potente e organizzato e un mercato del lavoro che l’immigrazione ha globalizzato solo nelle funzioni meno qualificate, è non a caso il Paese in cui la curva di Phillips funziona ancora benissimo. C’è pieno impiego e c’è inflazione salariale, come da manuale. Negli ultimi due anni di euro debole si è anche fermata la delocalizzazione, per cui il mercato del lavoro è tornato di fatto nazionale. Nel resto del mondo, però, molto è cambiato.
Ecco come la vede Alessandro Fugnoli: “I sindacati, cui il New Deal e le legislazioni europee del dopoguerra avevano dato un potere crescente, sono stati progressivamente indeboliti dalla legislazione dagli anni Ottanta in avanti. Le grandi fabbriche fordiste sono state delocalizzate, gli immensi uffici open space sono stati sostituiti almeno in parte dal telelavoro e dall’automazione. La forza lavoro non è necessariamente debole oggettivamente (il pieno impiego si estende ormai a numerosi paesi), ma è debolissima soggettivamente. È atomizzata, tratta sempre più in solitudine il proprio compenso, sa che nei Balcani, in Bangladesh o in Lesotho c’è chi può fare lo stesso lavoro per un terzo o un decimo del suo salario. Vede moltitudini di immigrati che fanno o potrebbero fare concorrenza (non a caso i sindacati tedeschi e la Spd si opposero con qualche successo all’immigrazione per tutti gli anni Settanta e Ottanta). Legge di intelligenze artificiali che un giorno potranno reggere gli stati, figuriamoci se non saranno in grado di fare il suo lavoro”.
Insomma, la mancata crescita dell’inflazione è figlia della mancanza di fiducia, un malessere da cui non sarà facile guarire.