Domani è un giorno importante. Uno di quei giorni da segnare sul calendario con la matita rossa. E non per il voto politico in Austria o per le regionali in Bassa Sassonia. Nemmeno per il derby Inter-Milan. Domani i destini del mondo – o, quantomeno, una fetta enorme di equilibri geopolitici – verranno decisi e comunicati. E dall’anticipazione che la Casa Bianca ha fornito ieri, c’è poco da stare allegri. Ricorderete come tutti i giornali e tg, in settimana, abbiano parlato della sibillina frase pronunciata da Donald Trump durante una cena con i vertici militari statunitensi, proprio a Pennsylvania Avenue: «Quella che stiamo vivendo potrebbe essere la pace prima della tempesta. Lo scoprirete presto». Cosa voleva dire? Tutti, chiaramente, pensarono all’escalation definitiva con la Corea del Nord, il punto di non ritorno più volte evocato. E invece, pare di no. Il pericolo che incombe, se possibile, è anche peggiore. E gli atti prodromici che lo hanno accompagnato, vedi il disimpegno di Usa e Israele dall’Unesco in chiave dichiaratamente anti-araba e anti-palestinese, parlano chiaro: la vendetta di Washington e Tel Aviv per la disfatta siriana sta per prendere corpo.
«Questo è il punto d’arrivo di nove mesi di discussioni con il Congresso e i nostri alleati su come proteggere meglio la sicurezza dell’America e il Presidente non ripeterà gli errori di Obama», ha sottolineato la Casa Bianca alla vigilia dell’atteso annuncio di Trump in merito all’accordo sul nucleare siglato nel 2015 tra Teheran e le sei grandi potenze. Il testo tuttavia non specifica quale decisione abbia preso il presidente sull’accordo, ma è comunque stato reso noto ieri, sibillino come non mai: «È tempo per il mondo intero di unirsi a noi nel chiedere che il governo iraniano metta fine al suo perseguimento di morte e distruzione», ha chiesto Trump.
Dopo settimane di riflessione con gli uomini del Consiglio per la Sicurezza nazionale e negoziati con il Congresso, la Casa Bianca ha anticipato i contenuti: l’obiettivo è «impedire al regime iraniano di andare avanti verso l’arma atomica». Di più, Trump, che ha già definito l’accordo «un imbarazzo per gli Usa e il peggiore accordo mai negoziato», deve chiarire appunto entro domani se ritiene che Teheran stia rispettando il patto per limitare il suo arsenale atomico, condizione che gli ha consentito di eliminare le sanzioni internazionali. Nemmeno a dirlo, Teheran ha immediatamente reagito alle minacce. «La Repubblica islamica iraniana prenderà misure appropriate per fare fronte a qualsiasi cambiamento nelle posizioni degli Stati Uniti rispetto all’accordo del 2015», ha dichiarato il presidente del parlamento iraniano Ali Larijani. E ancora: «L’Iran ha programmato tutte le variabili riguardo quanto possa succedere all’accordo nucleare. Tra i responsabili iraniani non c’è nessuna preoccupazione riguardo a questa materia ed abbiamo approntato misure appropriate per fare fronte a tutte le eventualità», ha concluso Larijani citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna.
Insomma, siamo alla fine del Piano integrale di azione congiunto (questo il nome dell’accordo siglato nel 2015 da Teheran con Usa, Russia, Cina, Francia, Germania e Regno Unito), così come desiderato dai neo-con che ormai controllano saldamente Pentagono e sicurezza nazionale e come vi dico da tempo? È l’ora del bersaglio grosso per il complesso industriale-militare che preme sul warfare per battere i marosi della recessione e della nuova crisi in arrivo? I movimenti rialzisti sul petrolio, direbbero di sì. Questo grafico ci mostra una dinamica diretta e molto interessante.
Sulla prima linea di eventuali rinnovi delle sanzioni contro l’Iran da parte di Washington, infatti, ci sarebbe l’Europa, fonte primaria dell’export di Teheran e quindi di quel surplus di produzione che dà così fastidio economicamente e politicamente all’Arabia Saudita. Di fatto, l’Ue ha già detto che a suo modo di vedere l’Iran sta rispettando a pieno l’accordo sul nucleare, quindi gli Usa – in caso di rottura del patto e ritorno delle sanzioni – si ritroverebbero con poco o nullo supporto internazionale per la loro campagna, riportando sì rischio geopolitico potenziale, ma ridottissimo impatto reale sul mercato del greggio. Diverso sarebbe se i compratori europei, che pesano per il 25% dei 2,2 milioni di barili al giorno di export iraniano, si spaventassero per il rischio di diventare vittime delle sanzioni secondarie di Washington, in caso di reimposizione unilaterale e decidessero di chiudere o limitare i commerci con Teheran.
Di fatto, l’Iran dovrebbe ridirezionare i flussi di produzione ed export verso clienti asiatici, ma questo porterebbe a un netto ridimensionamento dell’output e a un aumento dei costi: e questo è proprio ciò a cui puntano Washington e Ryad, riportare l’Iran ai livelli produttivi pre-accordo o, comunque, inviare al mercato il segnale shock di un crollo dell’export di Teheran. Insomma, se anche gli Usa decideranno per la rottura, si limiteranno ad attivare il detonatore: il botto sarà comunque reso possibile dall’Europa, intesa come Stati importatori. Massima resa, minima spesa: che Washington volesse colpire l’Iran è noto da tempo, ma a far male all’economia di Teheran sarà in prima istanza l’Europa, la quale sta casualmente beneficiando di un boom di accordi e commercio bilaterale con la Repubblica islamica. E che, ovviamente, pagherebbe il prezzo di ritorsioni iraniane.
Il messaggio è chiaro e tutto politico: o state con noi o con Teheran, stavolta Washington non accetta terzietà. E il messaggio arriva proprio mentre la Germania, motore politico d’Europa, è in piena vacanza di potere, stante i colloqui in atto per il nuovo esecutivo. In questo periodo, la Germania ha dato vita a lucrosi contratti di collaborazione con l’Iran ed è di ieri la notizia, rilanciata dallo stesso Vladimir Putin da Sochi, che nonostante le sanzioni, il commercio bilaterale fra Berlino e Mosca sia cresciuto del 25% quest’anno per un controvalore di 40,7 miliardi di dollari e con 5mila aziende anche a capitale tedesco che operano in Russia, dando lavoro a 270mila persone.
Insomma, formalmente si spinge per continui rinnovi delle sanzioni, ma la Germania sta quantomai sfruttando il mercato russo. Così come quello iraniano. Di fatto, le due chiavi strategico-politico-militari che hanno permesso ad Assad di restare al potere in Siria, nonostante tutti i trucchi – leciti e illeciti – di Usa, Israele e Arabia Saudita per prevenirlo. Ora siamo al redde rationem, purtroppo quello più pericoloso di tutti. E l’Europa, come avete visto, è sulla prima linea del fronte, quella economico-sanzionatoria che potrebbe far saltare equilibri geopolitici a noi favorevoli e raggiunti con enormi e lunghi sforzi diplomatici.
Saremo per una volta padroni del nostro destino, senza più contare sugli Usa, come disse la Merkel dopo il G7 di Taormina o la ragione atlantica e presenza dei Liberali nella nuova compagine di governo ci imporranno una nuova lex americana?