Domani il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la Legge di bilancio per il prossimo anno il cui obiettivo, lo ammettono con sincerità gli stessi ministri, è non fare danni, il che equivale a fare il minimo indispensabile e rinviare tutte le patate bollenti a dopo le elezioni. Chi vincerà vedrà. E se non vincesse nessuno, se il temuto equilibrio dell’ingovernabilità tra i tre poli principali, centrosinistra centrodestra e cinque stelle, si realizzasse? Allora sarebbero guai seri, avverte il Fondo monetario internazionale, il quale, pur apprezzando i progressi della congiuntura italiana, mette in guardia da tre mine vaganti: l’instabilità politica, il debito pubblico e i crediti deteriorati che marciscono nei bilanci delle banche; senza dimenticare una disoccupazione che rimane ancora attorno all’11%, una soglia troppo alta per considerare davvero solida e sostenibile, anche socialmente, la ripresa.
La crisi bancaria per il Fmi non è ancora risolta perché in Italia gli Npl restavano alti: nel primo trimestre dell’anno erano circa il 5,7% per l’area euro e sopra il 10% in sei Paesi, fra i quali l’Italia che accumula il 30% dello stock di crediti deteriorati dell’intera eurozona. Il documento del Fondo sostiene che, “senza uno sforzo più concertato per ripulire i bilanci delle banche e migliorarne la redditività, si potrebbero riaccendere in parti dell’eurozona preoccupazioni per la stabilità finanziaria e timori di un circolo vizioso fra domanda debole, prezzi e bilanci. Se dovessero riemergere rischi politici, per esempio, l’aumento dei tassi di interesse a lungo termine che li accompagnerebbe, peggiorerebbe la dinamica del debito pubblico, specialmente se l’inflazione dovesse rimanere debole”.
Dunque, ha ragione la Banca centrale europea, non il governo italiano? Il Fmi è dalla parte di Mario Draghi non di Antonio Tajani o della Commissione Ue che vorrebbe una gestione politica del problema. Pier Carlo Padoan ha detto che durante gli incontri che ha avuto a Washington nessuno si è mostrato preoccupato per lo stato di salute della banche italiane, forse nessuno tranne gli economisti di Christine Lagarde.
Tra le questioni roventi che Paolo Gentiloni rimanda al suo successore, ce ne sono alcune davvero ad alto potenziale anche politico: per citarne due molto mediatizzate, l’Ilva con i suoi quattromila licenziamenti e i tagli ai salari, e l’Alitalia la cui soluzione (se mai ci sarà) viene spostata senza colpo ferire al prossimo anno. Nell’un caso e nell’altro sono coinvolti denari dei contribuenti. E venerdì il consiglio dei ministri ha prorogato fino a settembre 2018 i 300 milioni prestati alla compagnia aerea.
Il governo ha già approvato il decreto fiscale che accompagna la Legge di bilancio e la misura più rilevante riguarda la nuova rottamazione delle cartelle fiscali dal primo gennaio al 30 settembre di quest’anno. Il pagamento può essere effettuato in cinque rate di pari importo, da pagare, rispettivamente, nei mesi di luglio, settembre, ottobre, novembre e febbraio 2019. È una misura alla quale Padoan attribuisce grande importanza perché da qui dovrebbero arrivare risorse decisive per far quadrare i conti pubblici che, ancora una volta, si affidano al recupero dell’evasione, l’eterna speranza dei governi incapaci di affrontare seriamente lo squilibrio tra entrate e uscite, tra tasse e spese.
Anche se si farà il meno possibile, infatti, non bisogna dimenticare che la manovra di bilancio per l’anno prossimo ammonterà comunque a quasi 20 miliardi di euro (esattamente 19,58) coperta per 10,9 miliardi in deficit grazie ai maggiori margini concessi dall’Unione europea e per 8,62 miliardi da nuove entrate molte delle quali (circa 5 miliardi) dipendono proprio dalle misure per recuperare l’evasione. Può darsi che vadano in porto, ma la navigazione resta accidentata.
Il decreto ha dato il primo giro di manovella a un altro film o meglio un serial che ci accompagna da anni, precisamente dal governo Letta: il rinvio delle clausole di salvaguardia che prevedono un aumento delle imposte indirette (soprattutto delle aliquote Iva) al fine di raggiungere il pareggio del bilancio strutturale. Intanto, viene reperito un miliardo di euro, per arrivare a 15,7 miliardi allontanando così del tutto la tremenda spada di Damocle che pende sulla testa di una politica fiscale che resta segnata dal piccolo cabotaggio.
Si poteva fare di più prima delle elezioni, mentre tutti, i sindacati e soprattutto i partiti affamati di voti, si preparano a dare l’assalto alla diligenza la quale quest’anno contiene finalmente un “tesoretto” legato alla ripresa della congiuntura? I realisti (anche quelli dell’opposizione moderata) ammettono che gli spazi sono limitati. Tuttavia si poteva fare, o piuttosto cominciare a fare, qualcosa di meglio per ridurre il fardello del debito pubblico. In assenza di una strategia ad hoc, questa sì impossibile a parlamento scaduto (ammesso che si riesca a trovare un ampio consenso per dare un taglio una tantum allo stock del debito), il governo avrebbe potuto agire in modo più consistente sui meccanismi che anno dopo anno fanno aumentare la spesa pubblica non coperta da entrate fiscali.
Quando si solleva questa obiezione, i ministri rispondono: e come, tagliando i servizi sociali? In realtà (lo hanno detto e scritto gli sfortunati commissari per la mitologica spending review) esiste un cuneo tra servizi, assistenza e spesa cosiddetta incomprimibile, molto consistente: le stime cambiano, ma si tratta di un centinaio di miliardi di euro per acquisto di beni e servizi (al netto di stipendi pubblici, sanità, pensioni, cassa integrazione ecc.), qualcosa come il 5,6% del prodotto lordo, un punto in più rispetto alla Germania. Nemmeno questa è la panacea, tuttavia mettere mano là dove s’annida una gestione inefficiente se non clientelare e corrotta del denaro dei contribuenti sarebbe stato un segnale importante anche sul piano elettorale. Per ora l’occasione è sfumata, sarà per un’altra volta; altro parlamento, altro giro. O no?