Il governo spagnolo ha abbassato le stime di crescita economica del Paese per il 2018 dal 2,6% al 2,3% attribuendone la causa all’incertezza politica venutasi a creare in Catalogna. L’obiettivo ridotto appare nel bilancio che il governo conservatore spagnolo ha consegnato ieri alle autorità europee, al quale l’Associated Press ha avuto accesso. Nel piano, le autorità spagnole prevedono anche un deficit del 2,3%, lo 0,1% più alto di quanto stimato in precedenza. Il governo attribuisce le ragioni delle variazioni a un rallentamento del ciclo economico globale e alla diminuzione dei consumi interni dovuti in gran parte alla crisi catalana. 



Il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, aveva ventilato la scorsa settimana che il governo stava considerando di abbassare le stime di crescita per il prossimo anno nel caso in cui il conflitto tra Madrid e Barcellona non si fosse risolto. Ora, la crisi catalana è nata formalmente oltre 3 anni fa, ma sfido chiunque ad averne sentito l’eco prima del 1 ottobre scorso: vale un allarme simile sull’economia spagnola, stante che fino a prova contraria ce l’hanno spacciata – fino all’altro giorno – come l’esempio virtuoso delle riforme? Difficile crederlo. Madrid, poi, parla di “rallentamento del ciclo economico globale”? Ma come, non eravamo tutti quanti usciti dal tunnel della crisi, trascinati da Borse che sfondano un record al giorno? A cosa fanno riferimento i conti di Madrid? Non è che, furbescamente, si cerca di anticipare il nuovo corso europeo? Ovvero, una Germania più dura sui conti ma, soprattutto, una Bce meno onnivora sul mercato? Il dubbio è legittimo. 



E che dire del Def italiano? Al netto che al suo interno di realmente strutturale non c’è nulla, come mai tanta quiete da parte di Padoan e del governo? Ieri è stata la giornata di presentazione dei conti reali e tutto pareva ammantato di miele: niente lacrime e sangue, niente conflitto con l’Europa. Di fatto, anche le minacce di sciopero generale della Cgil sono state respinte con un quasi colloquiale e irrituale “ma che manovra ha visto?” rivolto dal ministro delle Finanze a Susanna Camusso. C’è troppa accondiscendenza nell’aria dell’Europa. E c’è un Draghi silente come mai. 



Certo, parlare prima del board del 25-26 ottobre potrebbe essere un azzardo, ma il dato che impressiona è che nessuno dei vertici dell’Eurotower stia fiatando, nemmeno i “falchi” dell’opposizione alla linea di allentamento monetario. Leggi, la Bundesbank. E la famosa cena fra Jean-Claude Juncker e Theresa May di lunedì sera sul Brexit, quali novità ha portato? Nulla. In compenso, fioccano report negativi come saltano fuori funghi in un bosco dopo il temporale. Avete notato: fino a prima dell’estate il Brexit sembrava l’uovo di Colombo, di colpo pare una delle sette piaghe d’Egitto. L’ultimo avviso in tal senso è arrivato proprio ieri. L’economia britannica si è indebolita dopo il voto che ha sancito la decisione di lasciare l’Unione europea: mantenere stretti legami col blocco e implementare politiche per sostenere la produttività sarà cruciale per mantenere in futuro l’attuale tenore di vita. È quanto sostiene il nuovo report sulla situazione economica del Regno Unito realizzato dall’Ocse, che prende in considerazione gli sviluppi della situazione dal giugno 2016 e sottolinea le crescenti incertezze e i rischi legati alla Brexit. 

«Il Regno Unito sta affrontando tempi sfidanti, con la Brexit che crea serie incertezze a livello economico e che potrebbe soffocare la crescita negli anni a venire», ha commentato il segretario dell’organizzazione, Ángel Gurría, presentando la ricerca insieme al cancelliere dello scacchiere, Philip Hammond. «Mantenere relazioni economiche più strette possibili con l’Unione europea sarà assolutamente una chiave, per il commercio di beni e servizi così come per la circolazione dei lavoratori – ha proseguito Gurría -. La politica macroeconomica e fiscale può e dovrebbe continuare a essere usata a supporto dell’economia, sia durante che dopo i negoziati per l’uscita. La prosperità futura dipenderà da nuove riforme mirate a migliorare la qualità del lavoro, sostenere la produttività e assicurare che i benefici siano condivisi da tutti». 

Ed ecco che, ancora una volta, mentre Theresa May sembra tentata da un rimpasto di governo che ha l’odore acre dell’ultimo tentativo prima di cedere al voto anticipato, il ministro degli Esteri e gran sabotatore, Boris Johnson, arriva a lanciare granate nello stagno: «La cifra che ho sentito è 100 miliardi di euro… Penso che sia troppo», ha detto ieri in Parlamento. Quasi una sconfessione dei già magri risultati ottenuti finora durante i negoziati con l’Ue: non esattamente l’atteggiamento che dovrebbe tenere un ministro nei confronti del proprio premier, quantomeno in pubblico. 

È un susseguirsi di strani segnali. E di mercati placidi. Oggi, poi, comincia il Congresso del Partito comunista cinese, quindi per almeno una settimana possiamo contare – formalmente – su volumi ridottissimi nella Borse del Dragone, situazione destinata a placare sul nascere ogni possibile scossone sul fronte asiatico. E gli Usa? L’Iran è sparito di colpo dai monitor e anche la scadenza del 15 ottobre per decidere il da farsi sull’accordo nucleare è scivolata via in modo irrituale: di fatto, venerdì scorso il ministro degli Esteri, Rix Tillerson, aveva detto che Donald Trump lo avrebbe cassato, aprendo ai peggiori scenari. Poi, silenzio fino a lunedì, quando lo stesso Tillerson ha dichiarato che «un accordo con l’Iran è nell’interesse degli Usa», spalancando la porta al dialogo. Trump? Silente, nonostante la sua abitudine a tweets di ogni genere fin dall’alba. 

E dove si sta dialogando con l’Iran? In Medio Oriente, soprattutto in quell’Iraq divenuto di nuovo centro nevralgico e, soprattutto, scacchiera per la mai risolta questione curda, proprio con le milizie di Teheran al fianco di quelle irachene nella presa di Kirkuk, capitale petrolifera: i peshmerga hanno definito l’accaduto un “atto di guerra”, ma, nel frattempo, tutta la stampa del mondo definisce loro e proprio gli Usa i nuovi eroi per la liberazione definitiva della roccaforte dell’Isis in Siria, quella Raqqa caduta ieri. E chi sta tacendo troppo, visto l’intersecarsi del domino in un quadrilatero geopolitico di fondamentale importanza? La Russia. Il tutto, mentre Israele prepara la guerra a Hezbollah, spalleggiata dagli Usa che mentre aprono a Teheran sul nucleare mettono taglie proprio sui capi della milizia sciita controllata e difesa dalla Repubblica islamica. 

Vi pare uno scenario normale? Ma, soprattutto, vi pare uno scenario da calma piatta sui mercati, soprattutto quelli obbligazionario e delle commodities? C’è una spiegazione e ce la offre questo grafico e le parole d Mark Connors, global head risk advisor di Credit Suisse: «Che sia la minaccia di una guerra nucleare, un uragano, le intromissioni politiche russe, pare che ormai nulla possa distrarre o preoccupare gli investitori rispetto alla loro unica priorità: mandare sempre più in alto il mercato azionario Usa. Anche Richard Thaler, vincitore la scorsa settimana del Premio Nobel proprio per aver spiegato l’irrazionalità dei mercati finanziari, ha detto intervistato da Bloomberg Television che non riusciva a capire e spiegarsi cosa continuasse a far salire i titoli». 

Ce lo spiega invece il grafico, un qualcosa che abbiamo già visto nel 2010: la logica del buy the dip e sapete da cosa sono rappresentati i minimi che occorre comprare a ogni costo? Ogni livello di chiusura dell’indice del giorno prima, la regola del trading strategico è non vendere nulla, se non quando strettamente necessario. E sapete perché? Finché ci sono le Banche centrali a coprire le spalle al mercato, come ad esempio farà la Bank of China nei prossimi sette giorni, non occorre aver paura. Guardate questo altro grafico, il quale ci mostra il numero di giorni con almeno uno scostamento del mercato in rialzo o ribasso dell’1%: siamo ai minimi, placido come un lago alpino. Con tutto quello che sta accadendo a livello geopolitico e con i tassi di leverage pubblico e privato che presentano le principali economie avanzate? Con le Banche centrali che comprano di tutto e i titoli ad alto redimento che offrono spread da Bund o da Treasury? Ci credete? 

Il grande reset è in lavorazione e prima porta sempre con sé la calma, solo dopo arriva la tempesta. Che si riferisse a questo Donald Trump nella sua cena con i vertici del Pentagono della scorsa settimana?