Uber Pop è morto e Uber Black non si sente tanto bene. La pazza idea di istituzionalizzare i tassisti abusivi lanciata dall’Unicorno americano sta picchiando in testa. Il segnale di “contrordine compagni” l’ha dato la municipalità di Londra, che meritatamente è considerata metafora di liberalismo, nel costume come in economia. Londra ha semplicemente messo al bando Uber. Chiaro perché: lassù i taxi sono un mito, i famosi “cab” fanno parte del paesaggio, procurarsene uno e lavorarci comporta un investimento molto impegnativo e genera un valore corrispondente nelle mani di chi ce la fa: sono vetture fatte apposta, in serie limitatissima, con la carrozzeria vintage e, dentro, le migliori tecnologie. Un po’ come una volta a Capri, quando i tassisti usavano solo meravigliose Fiat 1500 decapottabili a passo lungo, con vernice bicolore, e non le tristissime Fiat Marea bianche, tutte uguali e tutte deprimenti che infestano oggi le viuzze dell’isola. Ebbene, non era ammissibile che qualunque vettura potesse fare il taxi a Londra, e il Municipio ha infatti detto no.



In Italia Uber Pop, che è poi il “cuore” di Uber – perché consente a tutti, in teoria, di fare il tassista a due lire – è al bando, e appunto anche Uber Black lo è, perché le tariffe che pratica non sono più spudoratamente sottocosto rispetto a quelle dei tassametri, ma sono pur sempre convenienti rispetto al servizio istituzionale che pretendono di emulare, cioè il noleggio con conducente, che per legge in Italia ha l’obbligo di rientrare in rimessa alla fine di ogni servizio, e non può quindi prendere le corse al volo, per strada, o su chiamata da strada, come accade con i taxi normali e come fa Uber Black, anche perché non ha alcuna rimessa…



Quel che sta venendo fuori – per dirla con accenti liberisti – è che la lobby dei tassinari ha vinto. Per dirla in termini oggettivi, invece, sta vincendo piuttosto la lobby di chi paga le tasse, i tassisti tassati, che non possono essere contenti e accettare con un sorriso di vedersi dimezzare i proventi da un’orda di tassisti evasori, quali sono in sostanza i piloti di Uber. Nel Paese delle mille leggi e leggine, il nostro, la vicenda Uber Black è ancora infilata nei meandri dei giudizi, ma difficilmente prevarrà. D’altronde in Estonia – il Paese miraggio di Uber, che ha accolto l’App a braccia aperte – il sistema “si parla” con l’anagrafe fiscale e tutte le corse sono tracciate, con i relativi compensi, per cui gli autisti pagano tasse vere, e dunque il differenziale di prezzo con i taxi normali si è praticamente annullato, riducendo di conseguenza la convenienza per il cliente e lo spazio di mercato per Uber.



Comunque in Italia i tassisti, non fidandosi, restano in agitazione e per il 21 novembre annunciano uno sciopero: restando, intanto e da sempre, una categoria corporativa e passatista, se si pensa che non hanno saputo ancora trovare un’intesa attorno alla loro piattaforma web MyTaxi che permette le chiamate via web, ma che fa arrabbiare quelli che pagano in canone del radiotaxi.

E nel frattempo cosa capita al gruppo americano? Che dove esercita il servizio è assediato da concorrenti ancora più pezzenti che surclassano il leader sul suo stesso terreno, il low-cost. E dove guadagnava bene sta perdendo spazi, come a Londra. Intanto la governance dell’azienda non si riequilibra dopo la fragorosa uscita del fondatore Travis Kalanick accusato di comportamenti scorretti e sessisti in azienda… uscita per modo di dire, perché il discusso manager è ancora di gran lunga il principale azionista, il padrone. Ed è alquanto arrabbiato.

Il consiglio d’amministrazione punta a quotare l’azienda in due anni: e intanto a introdurre nuove regole per “difendersi” dal potere di Kalanick. Ma gli analisti finanziari osservano che Uber, per quotarsi, dovrà diventare una “azienda normale”, ma temono che così facendo perda tutta la sua attrattiva.