Se potesse stramaledirlo, non essendo così occupato col suo trenino, a Matteo Renzi definirlo “gufo”: è l’Ufficio parlamentare di bilancio, una specie di Grillo Parlante senz’altro potere che quello di frinire i suoi avvertimenti. Potrebbe definirlo, insomma “grillaccio del malaugurio”, tanto per parafrasare un altro burattino toscano. Ma resta il fatto che l’esercizio econometrico pubblicato ieri dall’Ufficio – e anticipato da Repubblica – è di quelli che mettono i brividi.



L’Upb, così si chiama in sigla il temibile ufficio, ha voluto andare a vedere cosa accadrebbe alla nostra finanza pubblica se ci piombasse addosso un altro shock da spread, come quello occorso nel 2011, al punto minimo della fiducia dei mercati verso l’italica capacità di tenere i conti pubblici in equilibrio. Ebbene, il totale del costo che un altro shock di quella proporzione determinerebbe nella nostra finanza pubblica ammonta alla bellezza di 21,7 miliardi tra il 2018 e il 2020.



Perché? Cecilia Gabbriellini e Corrado Pollastri – i due analisti che si sono cimentati nell’esecrabile gufata – calcolano che con quello spread tra Btp e Bund tedesco il maggior costo del “servizio al debito” (cioè il totale di quattrini che il Tesoro italiano deve sborsare per pagare gli interessi sui titoli in circolazione) salirebbe di 3,1 miliardi nel 2018, 7,7 miliardi nel 2019 e 10,9 miliardi nel 2020. Già la batosta del primo anno sarebbe di quelle da tramortire, ma le altre due sarebbero semplicemente insostenibili. 

Ma perché questo ghiribizzo dell’Upb? Semplice (e gradevole, in questo caso, alle orecchie renziane): se le prossime elezioni politiche restituissero ai mercati un Paese ingovernabile o, molto peggio, governato dai grillini, che i medesimi mercati considerano la feccia del populismo, la fiducia nelle nostre capacità gestionali del debito crollerebbe. E poiché è poco ma sicuro che la rete di protezione del Quantitative easing tessuta da Mario Draghi sarà d’ora in poi gradatamente allentata, ecco esplodere il rischio-spread. Oggi la Banca centrale europea acquista ogni mese 60 miliardi di euro di titoli di Stato dei principali paesi debitori dell’Eurozona, primo fra tutti dunque l’Italia. Quanto durerà questa pacchia protettiva?



Lo studio ricorda che “fino agli anni della crisi l’Italia ha beneficiato della riduzione dei tassi a livello globale e della progressiva convergenza degli spread nell’ambito dell’Ue. Successivamente, in corrispondenza della crisi dei debiti sovrani, i tassi sul debito italiano hanno scontato un maggior rischio-Paese. Poi, però, l’intervento della Bce con il Qe ha consentito una riduzione dei tassi tale da portare nel 2016 l’incidenza della spesa per interessi sul Pil al minimo storico”. “Nel complesso – prosegue lo studio – si stima che la crisi ha comportato negli anni 2011-2016 una maggiore spesa di circa 47 miliardi, di cui circa 31 miliardi connessi alla fase acuta e 16 miliardi alla fase successiva. Nel 2016 il costo ammonta ancora a circa 7,6 miliardi complessivi”.

E oggi? Oggi, con uno shock di 100 punti-base la spesa cresce nel primo anno di circa 1,8 miliardi, aumentando progressivamente a 4,5 miliardi nel secondo e a 6,5 nel 2020; nel secondo scenario, con uno shock doppio, gli incrementi sono sensibilmente più rilevanti, raggiungendo quasi gli 11 miliardi nel 2020. Quant’è realistico paventare un simile uragano? Poco, per fortuna: l’Italia è un partner europeo “troppo grande per fallire”; non è come l’inoffensiva Grecia, che è stata di fatto messa alle corde, spogliata di moltissimi asset pubblici o in concessione (basti pensare agli aeroporti, comprati guarda caso da mani tedesche) e ben difficilmente si potrebbe giungere all’obbrobrio di aggredire la nostra economia fino a ridurla alla Troika. Però… però molto dipende dal potere che il nuovo corso della politica tedesca potrà esercitare sugli altri partner europei. E meglio sarebbe non sfidare il destino mettendo alla prova il precario assetto di governo della signora Merkel.