«La vita è quello che ti capita mentre sei impegnato a fare altri progetti», recita il vecchio detto di Anthony De Mello. È perfettamente adattabile alla politica economica italiana. Perché il concomitare, nella stessa giornata, dell’ennesima lettera perplessa della Commissione europea sullo schema di Legge di bilancio per il 2018 approvato dal governo Gentiloni e la promozione di Standard and Poor’s, la prima che capita alla Repubblica Italiana dal 1988, dimostra che appunto c’è molta casualità nel procedere degli eventi.
La stessa S&P motiva la sua promozione in un modo che sembra antilogico: «Rivediamo al rialzo il rating dell’Italia per le migliorate prospettive di crescita, sostenute da un aumento degli investimenti e dalla crescita dell’occupazione, ma anche dalla politica monetaria espansiva». Fattore potente, quest’ultimo, che da ieri è ufficialmente dimezzato, come risulta dalle decisione della Bce: il Quantitative easing europeo procederà, senza una scadenza annunciata, ma su dimensioni dimezzate. E allora come annoverarlo tra gli elementi confortanti per l’aumento del rating?
La crescita dell’occupazione che si è determinata, anche grazie agli incentivi del Jobs Act, comporta un sensibile costo in bilancio e soprattutto non fa aumentare il monte-ore lavorate, perché si compone anche di part-time e lavori occasionali, e ciò si riverbera sulla propensione al consumo che resta contenuta: e questo S&P non può non saperlo, come del resto sa che gli investimenti sono stati trainati a loro volta dal deficit pubblico connesso agli incentivi fiscali al rinnovamento del parco tecnologico.
Dunque si direbbe che questo “premio” di Standard and Poor’s sia un riconoscimento alla terapia prescritta dal medico, non una diagnosi incoraggiante sulla salute vera e propria del paziente. “Bene!”, si potrebbe dire: prendiamoci comunque i premi, quando arrivano. Però poi uno legge la lettera del vicepresidente della Commissione europea Dombrovskis e del responsabile degli affari economici Moscovici che ammonisce l’Italia sul rischio di scostamento dagli sforzi di aggiustamenti richiesti nel 2017 e nel 2018 e si chiede se sia soltanto pantomima o se ci sia sostanza. Entrambe le cose, in realtà.
Quel che manca da anni in Italia, perché forse soltanto il governo Monti tentò di porvi mano con fermezza senza peraltro riuscirvi, è una politica di bonifica della spesa pubblica improduttiva. Quest’assenza fa sì che sul versante “passivo” dei conti pubblici, appunto quello della spesa, manchi qualsiasi buona notizia. E si proceda per tagli e taglietti, nell’insieme appena sufficienti a mantenere il deficit tra il 2% e il 3%, ma comunque privi di un “senso” strategico e tanto più di una valenza risanatrice. In quest’ottica meritano rispetto e suscitano apprensione i voti lombardo e veneto per l’autonomia regionale, che dichiaratamente invocano il diritto di mantenere dentro i bilanci di Lombardia e Veneto il cosiddetto “residuo fiscale”, ovvero il surplus delle tasse versate dai residenti rispetto ai trasferimenti finanziari dagli enti centrali dello Stato alle due regioni.
Lombardia e Veneto, ma anche Emilia Romagna e Piemonte, spendono assai meglio e sfruttano assai meglio i fondi europei di quanto facciano tante altre Regioni. Se tutte le Regioni si comportassero allo stesso modo, il saldo complessivo del bilancio pubblico migliorerebbe, e molto: chi dice di 20, chi addirittura di 30 miliardi, il doppio del valore della Legge di bilancio che sta per essere discussa in Parlamento. E dunque? Perché non accade? Per l’impotenza politica dello Stato centrale.
Dunque al di là del ping-pong eurocratico, le perplessità di Bruxelles sui nostri conti battono sempre sullo stesso tasto: a spendere sono capaci tutti, a risparmiare no. Con la maionese impazzita della politica italiana di questi mesi e la prospettiva delle elezioni a marzo 2018, la logica di puro tran-tran del progetto di bilancio all’ordine del giorno è comprensibile, ma suscita apprensione. Non sfugge a nessuno che la manovra è per i due terzi dedicata a scongiurare il rialzo dell’Iva al 24%, che sarebbe stato necessario se il deficit avesse rischiato di sfondare il 3%. E questo toglie margini per qualsiasi altra misura, per qualsiasi altro intervento forte: al punto che quel poco che è previsto in manovra è anche frutto di un buon impegno. Ma è carente di una vera visione strategica.
Come stupirsene, però? Che senso, che rilevanza possono avere le considerazioni macroeconomiche e microeconomiche nella nostra fase attuale, con un partito di maggioranza, già fiaccato dallo “scisma” dei bersaniani, che si spacca clamorosamente su un punto-chiave come il rinnovo del vertice della Banca d’Italia? Con il presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica che prendono le distanze clamorosamente dalla linea espressa dalla segreteria? E, intanto, con il Presidente del Senato che lascia il gruppo parlamentare in formale dissenso con la scelta, formalmente fatta dal governo ma dettata dal partito, di imporre il voto di fiducia sulla riforma elettorale?
Ci si potrebbe confortare se dal fronte dell’opposizione si registrassero segnali convincenti: ma il centrodestra è un miscuglio disunito senza un vero papabile al ruolo di premier, e perfino i Cinquestelle – che comunque, come tutti i partiti populisti, non sono precisamente una pillola ricostituente agli occhi dei mercati finanziari – hanno chiaramente perso la spinta propulsiva, minacciosa per i detrattori quanto auspicata dai sostenitori, che avevano un anno fa. Dunque lo scenario che si profila è quello più grigio, di una coalizione senz’anima, dove il meglio che sembra poter capitare al Paese sarà un Gentiloni-bis sotto ipoteca del bullismo renziano, perennemente tentato dagli strappi – ne ha appena fatti due, gravissimi, su Rosatellum e Visco – salvo farli rientrare per opportunismo.
Quindi i fattori positivi espressi dall’economia reale – dall’export in aumento ai brevetti in ripresa, al risparmio sempre forte – vengono come incappucciati e oscurati dal disastro politico. Per ora, il quadro è questo.