Si comincia. «La Bce avrebbe dovuto fissare una data precisa per la conclusione del suo programma di acquisto titoli». Lo ha dichiarato il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, il giorno seguente la comunicazione della Banca centrale riguardo l’estensione del Quantitative easing, lasciando aperta la porta a un ulteriore proseguimento. «A mio avviso, sarebbe stata giustificata una fine chiara per gli acquisti netti – ha spiegato il banchiere tedesco -. Il principale impatto del programma di acquisto non sta tanto negli acquisti mensili, ma nel volume totale delle obbligazioni già nei nostri libri».
C’era da aspettarselo: almeno, come da protocollo, Weidmann ha avuto il buongusto di aspettare un giorno prima di criticare Draghi, il quale giovedì in conferenza stampa aveva preventivamente voluto sottolineare come la decisione sul Qe non fosse stata presa all’unanimità. Ormai siamo in dirittura di arrivo, i nodi obbligatoriamente devono venire al pettine. Draghi ha comprato qualche altro mese di calma relativa alla disfunzionale eurozona, ma ora la Germania chiederà il conto a livello di bilanci statali, c’è poco da fare: la primavera dovrà, obbligatoriamente, sacrificare qualcuno sull’altare della presunta stabilità. Serve un capro espiatorio. E con l’economia americana che, nonostante gli uragani e l’inflazione sotto obiettivo, cresce del 3% nel terzo trimestre, la narrativa ormai parla la lingua di una Fed che difficilmente a dicembre potrà evitare un rialzo dei tassi. A meno che la Corea del Nord non giunga in aiuto di Janet Yellen.
Siamo nel paradosso assoluto di un mondo che annega contemporaneamente nel debito e nel contante, flussi di denaro che si muovono freneticamente da una parte all’altra del globo alla ricerca di un minimo di extra-rendimento, poiché la prosecuzione delle politiche di stimolo sta esacerbando la dinamiche degli yields su tutte le asset classes. Basta guardare a cosa sta accadendo in Giappone, dove per la prima volta in assoluto gli attivi stranieri detenuti dagli investitori privati e istituzionali sono saliti oltre il milione di miliardi di yen. Stando alle stime calcolate dalla rivista Nikkei, l’ammontare è salito di circa il 50% negli ultimi cinque anni, attestandosi a 8.790 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra due volte superiore al Pil del Paese, la terza economia al mondo dopo Stati Uniti e Cina, ma, soprattutto, di un cambio di strategia epocale per il popolo del Sol Levante: sono sempre più numerosi i giapponesi che prendono i loro soldi e risparmi per spostarli dai mercati nazionali a quelli oltreoceano.
I titoli azionari costituiscono quasi la metà del milione di miliardi di yen che sono in fuga, questo al netto di una situazione pregressa in base alla quale gli investitori nipponici detenevano 453mila miliardi di yen alla fine di giugno, una somma in crescita di 100mila miliardi negli ultimi tre anni. Circa la metà dei titoli sono diretti agli Stati Uniti, mentre il 30% circa in Europa: ad alimentare una fuga di tali proporzioni, ovviamente, sono le mosse molto aggressive della Banca del Giappone, che per più di quattro anni sta inondando i mercati e l’economia con talmente tanti soldi che è difficile trovare rendimenti decenti.
Attenzione, però, a giocare con la logica di inflows e outflows valutari, perché quel denaro è talmente tanto e talmente instabile nelle sue allocazioni che un minimo evento inatteso a livello globale può scatenare uno tsunami: non tutti, infatti, sono così pazzi da operare come cassettisti in un mercato del genere e si tende a ballare vicino alla porta, pronti a fuggire al minimo segnale di rischio. Il problema è che quando si muovono quantità simili di denaro su allocazioni retail, ovvero denaro di gente che non opera professionalmente sui mercati, il rischio di ritrovarsi in una bolla come quella vissuta dalla Cina due estati fa sale esponenzialmente.
E chi sarebbe pronto a tamponare, visto che non esiste Banca centrale che non sia già elefantiacamente occupata in operazioni di stimolo monetario? Le economie avanzate globali sono di fatto dei tossicodipendenti obesi, troppo lente e impacciate per poter reagire a stimoli inaspettati: finora la pianificazione de facto del mercato posta in essere dalle Banche centrali ha evitato scossoni di ogni genere, basta vedere gli scostamenti risibili degli indici azionari e degli indicatori di volatilità, ma non si potranno sopprimere per sempre le dinamiche sane, vedi quella di domanda e offerta che potrebbe mandare al tappeto in sei mesi il mercato automobilistico americano. E qualche segnale che un intoppo si stia avvicinando, ce lo danno proprio le stesse Banche centrali, visti i continui rinvii della chiusura dei programmi di stimolo causati dal mancato conseguimento degli obiettivi prefissati.
Ad esempio, l’aumento dei costi energetici sostiene l’accelerazione dell’inflazione proprio in Giappone per il nono mese consecutivo, ma distante comunque dall’obiettivo del 2% della Banca centrale del Giappone (Boj). L’indice dei prezzi al consumo in settembre sale dello 0,7%, rendeva noto ieri il ministero degli Affari interni, mentre l’indicatore che esclude le componenti più volatili è risultato invariato rispetto al mese precedente.
Signori, siamo in stallo, nonostante il mondo stia annegando nel contante e le politiche di stimolo dovrebbero vedere i Pil nazionali volare a oltre il 5%, l’inflazione ampiamente sopra il 3% e tutti gli indicatori macro in esuberanza. Invece non è così: abbiamo combattuto una crisi da azzardo morale e debito indiscriminato con altro azzardo morale e debito indiscriminato. Pensate che questa sia la soluzione? Pensate che qualche mese in più di Qe, seppur a importo dimezzato, cambi davvero qualcosa? Auguri. Il deleverage che verrà, sarà una valanga.