Per la prima volta dal 1988 Standard & Poor’s ha aumentato il rating sul debito italiano. Intendiamoci, siamo solo a BBB, quindi non ancora in sicurezza (la mitica A resta un miraggio). Tuttavia rappresenta un segnale di fiducia inatteso, una scommessa dei mercati sull’Italia, un’occasione d’oro per completare le riforme e fare quello che la lunga crisi e ben due recessioni una dietro l’altra hanno impedito. Riusciranno i nostri eroi che siedono in Parlamento e s’accingono a sfidarsi per catturare voti sul grande mercato del consenso elettorale a non buttarla al vento? L’ottimismo della volontà spinge a rispondere sì, il pessimismo della ragione suggerisce ben altre conclusioni.
Ma vediamo innanzitutto i punti di forza e le debolezze che emergono dal giudizio della società di rating. La crescita va meglio del previsto e questo è il fattore determinante che ha fatto cambiare idea agli analisti. Per le esportazioni siamo a un vero e proprio boom che consente all’Italia di migliorare, sia pur di poco, la sua quota di mercato e di fare meglio della Francia. Anche la crisi bancaria è superata facendo pagare ai contribuenti un prezzo alto, ma comunque inferiore rispetto ad altri paesi.
Il principale punto debole resta l’incertezza politica. Stando a tutti i sondaggi, il voto con il Rosatellum partorirà un parlamento diviso in tre poli nessuno dei quali ha la maggioranza per governare. Basterà un soffio, dunque, per scendere di nuovo sotto le tre B, in tal caso tornerebbe a prender vita lo spettro dello spread.
L’agenzia di rating sottolinea le due tradizionali palle al piede dell’economia italiana: l’alto debito pubblico e la bassa produttività. La crescita consente di far scendere il debito rispetto al prodotto lordo, tuttavia la spesa pubblica continua ad aumentare senza essere compensata dalle entrate. Lo mette in rilievo anche la Commissione europea che ha chiesto chiarimenti al governo italiano entro martedì. La Legge di bilancio per il 2018, infatti, prevede un aggiustamento del disavanzo strutturale (cioè al netto degli effetti della congiuntura) dello 0,2% invece dello 0,6% sancito dal patto di stabilità. Una nuova grana che rischia di gravare sulla manovra dal lato delle imposte (vista la rigidità in basso della spesa), le quali per ora aumentano soprattutto grazie a manovre una tantum (altra circostanza che non piace a Bruxelles).
Quanto alla produttività, occorre un contributo convergente di tutti i protagonisti dell’economia al fine di migliorarla. In primo luogo, bisogna realizzare le riforme appena cominciate: il Jobs Act inizia a funzionare, ma non basta; gli incentivi varati da Carlo Calenda stanno aumentando gli investimenti privati, tuttavia bisogna utilizzarli al meglio per far crescere le imprese puntando sui settori più innovativi; la Pubblica amministrazione e la giustizia civile non danno ancora segni di vero cambiamento.
Il mercato politico, nel frattempo, manda impulsi negativi: proposte demagogiche, passi indietro sulle pensioni con la spinta a bloccare l’allungamento automatico dell’età di quiescenza in rapporto al miglioramento delle aspettative di vita, un moltiplicarsi di prebende (quantomeno promesse) e di mance elettorali. Eppure, l’Italia dovrebbe cogliere questa finestra aperta dalla congiuntura favorevole per prepararsi a quel che sappiamo accadrà nel 2018: la svolta della politica monetaria.
Mario Draghi si muove con i piedi di piombo. Ha annunciato che da gennaio la quantità di titoli acquistata mensilmente sarà dimezzata, da 60 a 30 miliardi di euro fino a settembre, ma si è lasciato le mani libere: potrebbe anche aumentare di nuovo a seconda della situazione economica. La Bundesbank è contraria, vorrebbe una data certa per la fine del Quantitative easing, come ha detto il presidente Jens Weidmann parlando venerdì a Parigi. Dunque, la tensione resta alta e la stretta non è scongiurata del tutto.
Anche la situazione delle banche è senza dubbio migliore, ma il sistema non è uscito dal tunnel, tanto che Moody’s mantiene un outlook negativo. Ci sono 350 miliardi di crediti deteriorati, il 17% dei prestiti lordi, tre volte più della media europea, ed è in corso il braccio di ferro con la Bce sui tempi e i modi del loro smaltimento. Sono troppi anche i titoli di stato in portafoglio e poi c’è il problema più grave di tutti: le banche non fanno utili, non abbastanza per reggere alla concorrenza e al prossimo choc. Restano arretrate tecnologicamente, inefficienti, ancorate a un modello (quello degli sportelli diffusi ovunque) che non regge di fronte all’impatto di internet e alla competizione con una miriade di soggetti non bancari o di istituti specializzati.
Insomma, lunga è la strada, più lunga di quella per Tipperary come cantavano i soldati inglesi cent’anni fa. Gli italiani debbono saperlo e non farsi incantare da nessun pifferaio magico.