Cosa significa per l’Unione europea e per l’Italia la dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Catalogna? L’aspetto principale non è economico, ma politico. Lo sottolinea con acume Michael Goldfard, direttore del podcast dedicato alle analisi storiche Frdh, in un lungo articolo pubblicato sul New York Times di sabato 28 ottobre. Goldfard si chiede “cosa è una Nazione nel ventunesimo secolo?”. Il referendum sul futuro della Catalogna è avvenuto poche settimane dopo quello sulla Regione irachena del Kurdistan. Esiti simili, Erbil ha dichiarato l’indipendenza e Baghdad ha inviato i carri armati. All’indomani del referendum in Catalogna, gli indipendentisti corsi hanno indicato la loro volontà di seguire una strada analoga per separarsi della Francia. Poche settimane fa, il Veneto e la Lombardia hanno votato per una maggiore autonomia, specialmente in materia tributaria. Nei cinque anni successivi al crollo del muro di Berlino, i Lander della Germania orientale sono stati lieti di farsi acquisire da quelli della Germania occidentale e di diventare sempre più simili a questi ultimi, la Cecoslovacchia si è pacificamente divisa in due Stati indipendenti nati da negoziati tra i differenti gruppi, la Jugoslavia, invece, è diventata sette Stati, dopo una lunga guerra e lo spargimento di molto sangue.
Terminate le guerre ideologiche (giunti, direbbe Francis Fukuyama, alla “fine della storia”), il concetto di Stato-Nazione creato da Francesco Primo di Francia nel Cinquecento dovrebbe essere rivisto, e con esso quello di federazione e confederazione. Solamente gli Stati Uniti d’America non hanno ancora questo problema, perché dalla fine della Guerra di secessione si considerano “una Nazione indivisibile alla guida del mondo” e sono il melting pot di varie identità. Il problema ce l’hanno in Africa, dove le frontiere tra i differenti Stati sono state tracciate da quelle che allora erano le “Grandi Potenze” coloniali. Lo hanno in Asia dove si stanno risvegliando, un po’ dappertutto, tensioni identitarie e anche tribali.
È questo il quesito principale da porsi e se lo dovrebbe porre anche e soprattutto l’Unione europea: se il concetto di “Nazione” si appanna, si appanna ancora di più quello di entità “sovranazionale” con lo spappolamento dell’edificio costruito dal Trattato di Roma in poi. Indubbiamente, i metodi possono essere ben differenti: in modo negoziato come la separazione tra Repubblica Ceca e Repubblica Slovacchia e come la Brexit (ben analizzata nel volume “Brexit: la sfida” di Daniele Capezzone e Federico Punzi, uscito in questi giorni) o con uno strappo (come gli eventi della Catalogna che tutti si augurano non arrivino alle dimensioni della dissoluzione della Jugoslavia). Tuttavia, se non si risolve il ruolo del significato di Nazione nell’era dell’integrazione politica internazionale resta monco un discorso principalmente economico del significato della possibile scissione (mi auguro negoziata) della Catalogna dal resto della Spagna.
Barcellona e la sua regione pesano per il 19% del Pil iberico. Insieme a Lombardia, al tedesco Baden-Württemberg e alla regione francese della Rhône-Alpes, la Catalogna è considerata uno dei quattro motori d’Europa. Ossia le regioni più industrializzate e più dinamiche del continente. Trainano, come locomotive, le economie dei loro Stati. Ed è questa una delle carte che il governo catalano ha giocato per giustificare il referendum sull’indipendenza: l’autosufficienza economica.
Ove non si giunga a una soluzione negoziata dopo gli avvenimenti di questi ultimi giorni, quali conseguenze potrà avere la scissione sull’economia iberica? Barcellona è la capitale industriale della Spagna. Il suo Prodotto interno lordo vale circa un quinto del totale spagnolo: 223,6 miliardi di euro nel 2016 su un totale di 1.120 miliardi. Il peso dell’export è ancora più incisivo: 65,1 milioni di euro su 254,5 milioni. In Catalogna, d’altronde, Nissan e Seat hanno insediato le loro fabbriche di automobili e settemila aziende straniere hanno aperto i loro uffici locali. E la città della Sagrada Familia è una delle mete turistiche più frequentate al mondo. A gennaio il ministro del Turismo spagnolo ha dichiarato che nel 2016 la Catalogna ha accolto 17 milioni di visitatori in una regione in cui risiedono stabilmente 7,5 milioni di persone. Nella regione di Barcellona, ad esempio, la disoccupazione è a un tasso del 13,2% (quasi la metà del resto della Spagna).
La Generalitat de Catalunya ha, però, un pesante debito, da cui sta uscendo lentamente e che potrebbe esplodere in caso di uscita dell’Ue e dall’Eurozona. Per il ministro spagnolo dell’Economia, Luis de Guindos, l’indipendenza potrebbe costare alla Catalogna un tracollo del Pil dal 25% al 30%. I risultati del referendum hanno incrementato lo spread tra i titoli di stato spagnoli a dieci anni, i Bonos, e il parametro di riferimento europeo, i Bund tedeschi. La distanza è di 119 punti base. Un documento pubblicato da Bloomberg nei giorni scorsi consiglia gli investitori di disfarsi di titoli spagnoli. Quindi, ci perdono tutti.
Di fatto, dal punto di vista economico, perderebbero entrambe. La Catalogna si ritroverebbe isolata dall’Ue e potrebbe perdere gran parte delle multinazionali. La Spagna sarebbe privata della sua economia più dinamica, con tutte le conseguenze sulla competitività internazionale e sulla tenuta dei conti pubblici. In queste ore le banche spagnole stanno perdendo quota in Borsa. A mio avviso, l’Ue (e il Governo italiano) non dovrebbero minacciare di non riconoscere la Catalogna come entità statuale, ma spingere per una soluzione negoziata come la Brexit e la scissione della Repubblica Cecoslovacca.