Non è certo una richiesta di secessione come in Catalogna, ma i referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia sono comunque il segnale di un malessere. Il fatto è che un pezzo importante della società e dell’economia italiana sente assai stretta la camicia nazionale e tenta di liberarsene. Sia pure con modalità e toni che anche gli oppositori hanno potuto apprezzare.



Proprio per questo il risultato raggiunto non va banalizzato, né sottovalutato. E se c’è un modo nel fare le cose, questo pacifico e dialogante va incentivato anche se la consultazione non potrà avere effetti pratici immediati e l’iter perché il desiderio espresso si trasformi in realtà è lungo e tortuoso. Dunque, nessun pericolo che a breve il Paese si divida, ma il messaggio politico giunge forte e chiaro.



Certo, le motivazioni che stanno dietro alla scelta dei cittadini del Nord chiamati a esprimersi sono tante e diversificate: si va dalla ricerca di una maggiore libertà di azione ai fini di una più spiccata competitività del sistema all’odio non represso verso i mangioni di Roma e i meridionali sfaticati per i quali non s’intende più saldare il conto con il pagamento delle proprie tasse.

Come si vede, il ventaglio delle aspirazioni e delle recriminazioni è molto ampio. Il punto di arrivo è comunque sempre lo stesso: che la ricchezza resti nei recinti delle Regioni dove si produce e che le aree più povere si arrangino provando finalmente a badare a se stesse senza più attendersi la benevolenza dei più forti. Con questo mettendo al bando il principio di solidarietà.



Ora, non c’è dubbio che gli amici lombardo-veneti qualche ragione per lamentarsi ce l’abbiano. E rivendicando un’efficienza che non riconoscono ai connazionali chiedono per le loro amministrazioni uno speciale trattamento da non confondere con lo status di Regione Speciale che vuol dire tutt’altro con esperienze (Sicilia in testa) che non raccontano nulla di buono.

Bene. Si considerano i primi della classe e si ribellano a essere confusi con gli ultimi: ciucci e ripetenti, soprattutto al Centro e al Sud, che fanno perdere tempo e soldi. Ecco, i soldi. Se è vero che gli amici del Nord abbiano fama di essere più bravi degli altri a crearli e gestirli è anche vero che qualcuno potrebbe ricordare loro che non sempre va così.

Nel caso delle banche venete, per esempio, il loro salvataggio è costato alle tasche di tutti i contribuenti qualcosa come 17 miliardi di euro. E il Mose di Venezia ha drenato dalla fiscalità generale risorse ingenti che non sempre sono state ben impiegate come le inchieste della magistratura hanno appurato. Insomma, tirare la corda è un esercizio che non sempre riesce bene.

Ci sono un insegnamento da trarre, allora, e una considerazione da fare. Il primo è che solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra (con la conseguenza non banale che nessuna pietra potrà essere mai scagliata). La seconda è che l’unione continua a fare la forza: piuttosto che dividerci dovremmo trovare le condizioni per compattarci in Italia come in Europa.

Smontare e rimontare il Paese, questo sì, è un compito che varrà la pena di svolgere. Ma questo è un altro capitolo.