Sedotti e abbandonati: sono i quattro milioni di imprenditori che avevano creduto a un impegno legislativo assunto lo scorso anno, con la Legge di bilancio 2017. Di che si tratta? Di quale impegno stiamo parlando? Lo denunciano indignati i commercialisti italiani sia attraverso il presidente del loro Ordine Massimo Miani, che attraverso varie associazioni tecniche: si tratta del rinvio al periodo d’imposta 2018 della riduzione dell’Iri, Imposta sul reddito delle imprese, al 24% di aliquota fissa. L’agevolazione riguarda (cioè: avrebbe dovuto riguardare) le imprese individuali e le società di persone, che sarebbero così state equiparate fiscalmente alle società di capitali. La Legge di bilancio approvata a fine 2016 per il 2017 introduceva la riduzione dell’Iri per questa categoria di imprese in via inderogabile: e questa decisione – non una promessa, ma un fatto – ha giustamente indotto numerosissime di queste imprese a rapportare l’acconto che è stato già pagato per le tasse 2017 alla nuova e più bassa aliquota. Ora, se la riduzione dell’aliquota prevista per il periodo d’imposta 2017, viene fatta slittare al 2018, gli acconti più leggeri dovranno essere compensati da saldi più salati. Il che innanzitutto è un danno rispetto al diritto di ogni contribuente a poter sapere in anticipo e pianificare quante tasse dovrà pagare; ma soprattutto è un danno secco in termini monetari. Avevamo previsto di pagare meno, dovremo pagare di più.
Ma quanto di più? Circa 2 miliardi di euro: pari allo 0,112% del Pil nel 2018. Quindi tanta roba, che il governo Gentiloni non sa assolutamente dove andare a pescare se non così, cioè tradendo un impegno. Che ormai è stato cancellato per iscritto, perché il rinvio della riduzione dell’Iri si evince dalle tabelle allegate al Draft budgetary plan – Dbp (Documento programmatico di bilancio) – che il Consiglio dei ministri ha approvato e spedito a Bruxelles.
Vatti a fidare del fisco. I tanti che hanno ridotto l’acconto da pagare; i tanti che, addirittura, avevano pianificato di non trasformare le loro società personali in società di capitali per godere di questa riduzione-monstre del prelievo fiscale, ben 20 punti percentuali: beh, peggio per loro. Che si freghino. Pensavano che sarebbe stato impossibile cambiare una norma, già in vigore, con effetto retroattivo, per pure e semplici ragioni di cassa? E invece è possibile!
Ai commercialisti che giustamente, tuonano lamentando la violazione dello Statuto dei Diritti del Contribuente e di tutti i principi di civiltà giuridica, agli esperti di finanza aziendale che lamentano il fatto che questo rinvio vanifichi lo sbandierato obiettivo governativo di agevolare la capitalizzazione delle Piccole e medie imprese italiane, non si può che rispondere: fatevene una ragione. Viviamo in un regime che soffre di due handicap: la sovranità limitata imposta dalle norme europee e la demagogia dettata dalle incerte scadenze elettorali.
Quindi da una parte i governi inseguono e inseguiranno sempre l’effetto-promessa, per contrastare le ben più roboanti promesse delle opposizioni; dall’altra, possono fare a malapena quel che consente loro di fare non solo e non tanto la realtà economica nazionale quanto il diktat europeo. Se Gentiloni rinvia la flat-tax delle imprese individuali, Berlusconi continua a promettere la flat-tax per tutti. Tanto, promettere non costa niente: evidentemente, nemmeno in termini elettoralistici, per la memoria breve degli elettori.
Questa misura clamorosamente rinviata di un anno all’ultimo minuto chi l’aveva promessa? Ricordiamocelo: ma il brutto è che se ricordarselo significa non rivotarli, quali scelte elettorali alternative si prospettano che appaiano più convincenti di quelle scartate per manifesto peccato di spergiuro?