“Alcuni dirigenti europei del settore bancario ignorano che il loro compito è evitare crisi del credito, non crearle“. Così Matteo Renzi ha bocciato la proposta della Vigilanza europea sulle sofferenze. Non meno vibrante l’appello di Antonio Patuelli al presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani: “Mentre stanno per iniziare a concludersi  le importanti iniezioni di liquidità Tltro realizzate dalla Bce per favorire la ripresa economica e sociale, contemporaneamente  un altro ramo della Bce ha preparato una ulteriore, ennesima cospicua stretta ai requisiti patrimoniali delle banche europee, aggiungendo vincoli a vincoli emanati pochi mesi fa, producendo un terremoto normativo che deve, invece, finire perché altrimenti realizzerebbe una stretta ai prestiti innanzitutto alle piccole e medie imprese”.



Gli esami, insomma, non finiscono mai. Manco il tempo di festeggiare lo scampato pericolo del collasso delle banche italiane dopo due anni vissuti pericolosamente e si torna a parlare di “terremoti” o, come ha fatto l’ex premier, addirittura di “tentato suicidio dell’Europa bancaria”. Ovvero di rischio sterminio per le aziende di credito italiane. Un fulmine a ciel sereno, piovuto sul cielo delle banche italiane poco dopo la conclusione dell’ultimo salvataggio, quello della Cassa di Rimini e altri istituti romagnoli, rilevati dal Crédit Agricole dopo la pulizia dei crediti deteriorati a cura di Atlante 2, impegnata a spendere gli ultimi spiccioli. Soprattutto un pessimo regalo al sistema a pochi giorni dal rientro in Borsa di Monte Paschi sotto l’ala protettiva del Tesoro, che potrebbe (doveva) rappresentare un passaggio decisivo verso la normalità.



Ma l’idillio, con relativo ribasso in Borsa dei titoli bancari (ma non di Unicredit e Intesa) è stato guastato da Daniele Nouy, la responsabile della Vigilanza bancaria europea che ha messo a punto le regole per le nuove sofferenze bancarie, quelle che sorgeranno dopo il 1° gennaio. La regola, in estrema sintesi, prevede una durata massima di due anni sui crediti non garantiti e di sette anni per quelli garantiti. Trascorso questo tempo, il valore di bilancio dei crediti non soddisfatto nel frattempo dovrebbe essere azzerato. Il meccanismo, all’apparenza semplice, presenta diversi punti da sistemare: non è ben chiaro il trattamento delle sofferenze attualmente in essere. Il termine dei due anni, poi, stimato per l’azzeramento dei crediti non garantiti è piuttosto severo. Poi ci sono i vai distinguo metodologici, che meritano l’analisi dei tecnici. Ma non le filippiche di una classe dirigente, bancaria e politica, responsabile di molti dei disastri delle nostre aziende di credito che vorrebbero scaricare le proprie responsabilità sull’Europa. Addirittura, mettendo in antitesi la Bce “buona” (quella del Quantitative easing) con quella “cattiva” che pretende il rispetto delle regole.



Le proposte dell’Autorità della vigilanza, insomma, possono essere corrette e migliorate, ma è difficile contestarne la ragione. Si tratta, innanzitutto, di rendere più omogenee le valutazioni delle banche a livello europeo, facilitando così il processo di merger all’interno dell’Unione bancaria, accelerando le concentrazioni, inevitabili per la pressione delle tecnologie e necessarie per consentire all’Europa di disporre di un’industria finanziaria all’altezza della competizione con americani e asiatici. Ma, soprattutto, l’intento è di spingere le banche ad attivarsi al proprio interno nella gestione delle sofferenze, esattamente come solennemente auspicato (a parole) dai nostri regolatori.

C’è poi probabilmente un’altra ragione. Secondo Reuters, la prossima settimana la Bce esaminerà un progetto di garanzia comune per le banche dell’Eurozona, un tema finora fieramente osteggiato dalla Germania (che non intende pagare i debiti altrui). Il compromesso riguarda solo, per ora, le banche fallite, ma potrebbe estendersi in futuro, con gradualità, al resto del sistema. A una condizione: l’azzeramento delle sofferenze in essere per limitare il rischio di brutte sorprese. Insomma, la Germania (e i suoi alleati) possono accettare il principio della mutualità solo se i partner, Italia in testa, meriteranno fiducia.

Ma le banche italiane, si potrebbe ribattere, hanno compiuto grandi sacrifici e grandi passi in avanti in questi anni. Vero, tant’è che la pubblicazione delle regole Nouy non ha provocato danni a Unicredit (ripulita dal maxi aumento di capitale) o a Intesa (protagonista dell’operazione banche venete). Ma, come nota Bernstein, società d’analisi specializzata nel settore credito, “il nuovo criterio per le banche italiane, dove il tasso dei crediti il cui status declassa a sofferenza è ancora elevato e dove le banche hanno fatto affidamento a presunti valori per le Npe che ne hanno giustificato il livello relativamente basso di accantonamenti, questo rappresenta un problema. Soprattutto se si considera che ci vogliono molti anni prima che il credito possa essere riscosso, sempre che venga riscosso”.

Insomma, le vere riforme vanno ancora fatte. Per quale motivo gli interventi dei tribunali devono per forza avere dalle nostre parti tempi biblici? Perché, invece di lamentarci per norme che danneggiano le piccole imprese, non acceleriamo i merger o il ricorso al mercato azionario? Non ha senso chiedere pazienza e trattamenti di favore per la pletora di banchieri e di cda quando s’impone una stretta all’occupazione dei bancari e si profila l’esplosione del Fintech.

La politica, soprattutto quella che ha alle spalle i disastri di questi anni, dimostri di aver capito la lezione invece che insistere sulle strade sbagliate che hanno provocato tanti disastri: le sofferenze non sono un bene artistico o naturale da preservare, bensì un’ipoteca sul futuro.