Manco il tempo di celebrare l’accelerazione della crescita europea, ai massimi da dieci anni, ed ecco che le Borse entrano in una fase di declino. Il fenomeno, al solito, è più evidente a Piazza Affari che altrove: il mercato azionario è entrato in una spirale negativa (sei sedute consecutive al ribasso) in coincidenza con la conferma dei progressi dell’economia, accreditata di un aumento dell’1,5% nel 2017, quasi il doppio di quanto stimato a maggio. La caduta, per giunta, ha coinciso con la discesa record dei rendimenti del debito pubblico, culminati in un rendimento dei Btp a dieci anni, a metà settimana, sotto l’1,7%. Anche la questione delle sofferenze bancarie, dopo l’intervento dell’ufficio legislativo dell’Unione europea, è stata ridimensionata. Le banche italiane, che pure devono continuare a far pulizia, non dovranno sottoporsi a una suicida corsa contro il tempo per adeguarsi ai dettami di madame Nouy, responsabile della Vigilanza.



Insomma, a prima vista non sembra che ci siano le ragioni per spiegare la retromarcia, che pure minaccia di proseguire. Anche perché, complici le trimestrali, l’Orso, simbolo del ribasso, ha ormai preso gusto a colpire le prede con la freddezza di un cecchino spietato. L’ultima vittima è stata Leonardo ch in una sola giornata ha perduto un quinto del suo valore, un fatto inedito per una società di grandi dimensioni e di grande valore strategico, per giunta sotto il controllo dello Stato che dovrebbe disporre degli strumenti per vigilare sulle partecipate. Al contrario, gli azionisti hanno dovuto prender atto di un’inattesa crisi degli elicotteri di Agusta Westland, già fiore all’occhiello della tecnologia del gruppo.



Cambiamo settore. Fino a pochi giorni fa solo gli addetti al lavori avevano una qualche idea dei problemi del Credito Valtellinese, una banca di medie dimensioni collocata in una delle zone economiche più forti del Paese, la Lombardia che dovrebbe essere il motore della ripresa. Al contrario, Piazza Affari si è svegliata giovedì mattina con la sgradevole scoperta che il Creval, che in Borsa valeva a inizio settimana 324 milioni, denunciava una perdita nel trimestre superiore ai 400 milioni, senza per questo ridurre le sofferenze sotto la barriera di 2,2 miliardi. Per questo sarà necessario un aumento di capitale di 700 milioni, una richiesta in grado di piegare il titolo (sotto del 40% abbondante in tre giorni) e, soprattutto, di gettare un’ombra su molti titoli bancari, tipo Banco Bpm, che sembravano avviati su un terreno virtuoso.



L’elenco potrebbe continuare anche se, per fortuna, le società del listino italiano sono oggi senz’altro più solide che all’inizio del 2017. Ma resta in memoria l’allarme del presidente del Creval: la nostra crisi non dipende da malversazioni o da prestiti agli amici e agli amici degli amici. Semmai è il risultato di dieci anni di crisi in cui l’economia italiana è arretrata del 25%. Ovvero, non è ancora il momento di riscuotere il dividendo della ripresa.

Insomma, una gelata. O, forse, solo un malessere di stagione. Proviamo a capirlo, nel massimo rispetto dei segnali in arrivo dai listini, che di rado sbagliano quando annunciano le loro profezie. A spingere per il ribasso, nell’economia globale, sono le difficoltà che incontra la riforma fiscale annunciata da Donald Trump. Dopo il fallimento della riforma sanitaria, è per i repubblicani l’ultima possibilità di evitare il ritorno all’opposizione, ma questo non ne rende necessariamente più facile il cammino. Da una parte c’è infatti l’istinto di sopravvivenza di gruppo che imporrebbe di trovare un accordo, dall’altra c’è quello individuale che chiede di uniformarsi agli umori del proprio elettorato, diverso in ogni collegio. C’è poi una parte del partito che odia Trump al punto da preferire una sconfitta storica a una riconferma di Trump. In ogni caso la sconfitta in Virginia e New Jersey serve a ricordare che non votano le imprese, ma le persone e che questa riforma è tutta sbilanciata a favore delle imprese e fa molto poco per le persone.

Anche l’ascesa del petrolio e la previsione che i tassi, precipitati a valori infimi, non potranno che salire dopo l’insediamento di Jerome Powell al vertice della Fed nel prossimo febbraio suggeriscono l’idea che quest’anno non ci sarà il tradizionale rally di fine anno, visto che si è già consumato, con i grossi rialzi autunnali, il potenziale di rialzo. In questa cornice i mercati sono portati a pensare male. Anche l’innovazione tecnologica, a partire dalla novità del digitale, suscita cattivi pensieri: l’auto elettrica (o quella a guida autonoma) sarà in futuro una grande opportunità, per ora è soprattutto, maggior costo che riduce i profitti. E lo stesso vale per altri comparti industriali o dei servizi. In attesa di digerire la Mifid 2 che nel breve impatterà sui guadagni del gestito.

Sarà quindi un Natale magro per gli azionisti? Molto dipenderà dalla violenza della correzione in atto. Non è escluso che sia così rapida da esaurirsi prima delle Festività di fine anno. Non fatevi prendere dall’ansia, perciò. E tenete a mente che le intemerate della politica italiana, almeno per ora, pesano meno di alte follie, vedi la Brexit o l’autogol della Catalogna. Anche se la nostra capacità di farci del male non ha eguali.