«Per me il lavoro che si sta facendo è serio ed entro la fine della legislatura c’è la possibilità di arrivare a conclusioni importanti, anche e soprattutto, non solo guardando al passato, ma cercando di dare indicazioni precise al legislatore per il futuro». Lo ha detto il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, Pier Ferdinando Casini, rispondendo sabato alle domande dei giornalisti al suo arrivo all’assemblea nazionale dei Centristi per l’Europa a Bologna. L’obiettivo, ha aggiunto l’ex presidente della Camera, è «evitare che certi errori che si sono fatti sulle spalle dei risparmiatori salvaguardino veramente tanti italiani che vanno in banca con fiducia a investire i propri risparmi».
Qualcuno dica a Casini che la nuova direttiva Mifid 2 sulla prospettazione degli investimenti è già previsto che entri in vigore il prossimo anno senza che la Commissione si agiti troppo. Ma, altresì, che se i vertici apicali degli istituti vogliono piazzare la loro immondizia, il metodo lo trovano comunque. Io, che non sono un manettaro e avverso i metodi giacobini alla Mani Pulite, ve lo dico chiaro; serve la paura della galera per chiudere con certe pratiche, non le direttive. Tanto è vero che Mifid 2 doveva essere già entrata in vigore, ma le banche stesse hanno fatto rete per rinviare l’introduzione fattiva al prossimo anno, fra baruffe sul conflitto d’interesse e altre furbesche dispute di lana caprina sull’applicazione.
In compenso, sempre sabato qualcosa mi ha tirato su il morale: ovvero, vedere confermate alcune mie tesi espresse in un articolo di due settimane a da parte di qualcuno che sa cosa siano il potere e la ragion di Stato. Alla domanda, se Mario Draghi fosse nel mirino della Commissione d’inchiesta sulle banche, ecco la sua risposta. «È stato al centro del processo ma viene tirato in ballo soprattutto perché può diventare un potenziale premier, una riserva della Repubblica quando, fra un anno, lascerà Francoforte. Non mi sembra una lettura troppo dietrologica». Parole e musica, all’interno di un’intervista a QN, dell’ex ministro delle Finanze, Rino Formica, vecchia conoscenza del Sussidiario. E ancora: «Sicuramente la Commissione non produrrà effetti sui compiti, le funzioni e le attività della Banca d’Italia. Negli ultimi 25 anni è profondamente cambiato il quadro istituzionale. Prima via Nazionale gestiva la liquidità, fissava il tasso di sconto, guidava la politica monetaria e, con questa, la politica economica. Poi, dal 1992, è cominciata la stagione delle privatizzazioni bancarie e la progressiva perdita di sovranità a vantaggio delle istituzioni europee. La polemica di oggi è tutta politica, uno scontro fra i poteri che hanno governato in questi 25 anni e una guerra di fazioni all’interno del Partito democratico», afferma.
Tra Consob e Bankitalia, aggiunge, «non volano solo gli stracci. Si dà un colpo anche alla credibilità del Paese e a un’istituzione che era considerata sacra. Ma che non è mai stata immacolata. Lo dimostrano scandali come quelli di Sindona: la situazione era ben nota a via Nazionale molti anni prima. Ci furono complicità, acquiescenze». Ma i responsabili per Formica non saranno trovati: «Finirà con una relazione finale frutto di un mercatino delle responsabilità fra le forze in campo». Da incorniciare e appendere nelle aule scolastiche e degli uffici pubblici di tutta Italia, tanto per marchiare decisamente la differenza fra un politico e un frequentatore del Parlamento. E il protagonista collaterale ma ultra-autorevole della disputa senza precedenti fra Bankitaia e Consob su Veneto Banca, ovvero Mario Draghi, cosa dice? «Nessun commento, oggi parliamo d’altro». Lo ha affermato appunto il presidente della Bce, a margine del meeting di Medici con l’Africa Cuamm svoltosi sempre sabato a Milano, alla richiesta di un commento sulle tensioni nel mondo bancario italiano. Niente che stupisca, conoscendo da tempo lo stile di Mario Draghi. In compenso, sarebbe interessante che chi ha intenzione di tirare per la giacchetta il numero uno dell’Eurotower per mero calcolo di campagna elettorale si rendesse conto del rischio che sta prendendosi.
Perché lungi da me voler assolvere qualcuno a priori o, peggio disinteressarmi della verità rispetto quanto accaduto nel sistema bancario italiano, occorre capire che ci sono momenti in cui la verità deve attendere, passare tristemente in subordine. Perché rischiare di minare la credibilità politica di Mario Draghi oggi appare l’atto più irresponsabile che possa compiersi. Non solo perché si sostanzierebbe primariamente in un atto di suprema ingratitudine, visto che senza la Bce e i suoi acquisti, oggi saremmo ben lontani dalle condizioni macro che il governo Gentiloni millanta e l’Istat ci ricorda ogni giorno, ma perché stiamo entrando nel momento più delicato di tutti: la fase prodromica al graduale ritiro delle manovre di stimolo, ancorché prolungate nella fascia temporale. E non pensiate che la questione sia soltanto l’abbassamento del volume di acquisti o il mese in più o in meno di questi ultimi sul mercato: la questione è strutturale. Il grattacapo che non fa dormire Draghi si chiama infatti Cina, un qualcosa cui la Bce ha dedicato un report la scorsa settimana che forse sarebbe il caso di distribuire ai membri della Commissione d’inchiesta.
Il documento è lungo e, in molti tratti, decisamente tecnico, ma vi bastino pochi numeri e un grafico. Cominciamo dai primi. Il debito corporate non-finanziario di Pechino oggi pesa per circa un terzo di quello globale. Da solo. Ma non basta: dal 2005 a oggi, la Cina ha contribuito a un livello senza precedenti alla crescita del mondo, anche questo un terzo del totale, più dell’insieme della contribuzione combinata delle economie avanzate. Ma non basta, perché sempre il Dragone pesa per il circa il 10% dell’import globale e se questo parzialmente riflette l’importante posizione di Pechino nella catene di valore globale, per molti partner commerciali una parte significativa di valore aggiunto dipende proprio dalla domanda finale della Cina: in parole povere, se all’economia di Pechino succede qualcosa di male o di imprevisto, questo porterebbe praticamente in automatico a una depressione globale.
Tanto per mettere le cose in prospettiva a livello di crescita della domanda, la Cina è la più grande produttrice e consumatrice della gran parte delle materie prime esistenti, pesando ad esempio per la metà globale del consumo di rame, acciaio e alluminio, senza contare l’enorme livello di consumo energetico. Un gigante che può essere traino, ma anche valanga. Ancora un numero: il cosiddetto Total Social Financing, ovvero niente più che la spesa pubblica, la quale include anche la voce sempre più preoccupante del cosiddetto “debito ombra”, sta rapidamente approcciando per la Cina la ratio del 250% rispetto al Pil. E il Pil cinese non è quello anemico dell’Italia, per capirci. Ora, al netto di tutti questi numeri e nonostante la grana incombente del tapering del Qe, alla Bce hanno sentito la necessità di sedersi e tavolino e discutere, mentre qui qualche genio della lampada non trovava di meglio che usare il nome di Draghi per rifarsi una verginità con i correntisti truffati delle banche popolari.
Discutere di cosa, soprattutto? Di quanto vedete nel grafico più in basso, ovvero dell’impatto di una frenata dell’economia della Cina sull’area euro. Il rischio maggiore è quello che viene definito shift rebalancing, ovvero l’impatto di una frenata del principale esportatore al mondo sull’espansione economica europea: nulla di cui preoccuparsi, stante le proiezioni di una crescita dell’eurozona al 2% sia quest’anno che il prossimo. Ma, attenzione: quello 0,2% è basato sull’assunto che le onde di shock di quell’evento sull’economia mondiale siano limitate, mentre prendendo in esame effetti più ampi su commercio, cambi e mercati finanziari globali, ecco che il rallentamento per l’eurozona toccherebbe l’1,2%. Addirittura, se si dovesse arrivare all’aggiustamento brutale o hard landing dell’economia cinese, ovvero con un Pil in calo di 9 punti percentuali da qui al 2020 a causa di una contrazione finanziaria molto netta, il rallentamento per la crescita dell’eurozona sarebbe del 1,5% e questo in base alle proiezioni più conservative.
Risultato? Depressione immediata e credit crunch globale ben peggiore del 2008. Ecco con che cosa ha a che fare Mario Draghi in questi giorni e settimane, al netto della grana Qe. Trovate che sia davvero intelligente trascinarlo in quella che, in prospettiva, altro non è se non una bega da ballatoio, rischiando di mettere a rischio la credibilità in mezzo mondo, visto che Usa e Fed non aspetterebbero altro per spostare l’epicentro della futura crisi lontano da dollaro e Wall Street? Chissà che fra Commissione e segreterie di partito si arrivi a un rapido rinsavimento, seguendo i saggi – ma poco diplomatici – consigli di Rino Formica.