Zitto zitto, il governo con una legge ha fatto una moneta complementare. Si tratta dell’attuazione del Progetto Common (nome derivato dall’inglese Complementary Money). Questo è accaduto con la legge approvata in Senato l’11 ottobre relativa alle norme fallimentari. Di fatto, un creditore di un’azienda fallita ha la possibilità di vedersi riconosciuti questi “common” e di usarli come moneta per acquisti sempre nel settore delle aste fallimentari. Quindi, di fatto, il common è una vera e propria moneta, con una vita propria e con un obiettivo chiaro.
Il proposito è espresso all’art 7 comma 9 del Disegno di legge in cui si prospetta la presenza di “un ente che certifichi la ragionevole certezza di soddisfacimento dei crediti insinuati al passivo di ciascuna procedura” e “il riconoscimento facoltativo ai creditori di un titolo che li abiliti a partecipare alle vendite dei cespiti in misura proporzionale alla misura dei crediti che l’ente gli ha certificato”. Ma perché questa (utile) pensata? Da dove nasce l’idea?
L’idea nasce dalla considerazione che la crisi economica ha radicalmente modificato le condizioni in cui si svolge un’asta sui beni di un’azienda fallita. In condizione di salute del mercato e dunque con liquidità sufficiente a rispondere all’offerta, il mercato garantisce una discreta efficienza dei prezzi di vendita che comporta la massima valutazione possibile dei beni liquidati del fallito e la massima soddisfazione per i creditori. Ma la riduzione della domanda per la rarefazione monetaria prodotta dalla crisi produce sul mercato dell’insolvenza una tendenza al ribasso dei prezzi che si riflette anche nei fallimenti e favorisce le aspettative ribassiste e le strategie attendiste degli operatori; le strategie attendiste producono una conferma della tendenza ribassista favorendo l’avvitamento negativo dei prezzi.
Il problema trova uno sviluppo aggravato in tempo di crisi nel mercato dell’insolvenza in cui l’attesa e l’aspettativa di un prezzo sempre migliore (per chi compra, quindi più basso) è alimentata dall’eccesso di offerta (per il grande numero dei fallimenti). Questo si riflette ovviamente sulla scarsa soddisfazione degli stessi creditori che a loro volta arricchiscono la catena dell’insolvenza a causa dell’insuccesso nella riscossione del credito. Quindi soggetti in difficoltà in tempo di crisi, a causa dei meccanismi delle procedure fallimentari rischiano a loro volta di trovarsi falliti.
I creditori possono scegliere se essere soddisfatti in moneta corrente (euro) o in moneta virtuale spendibile nel portale delle vendite pubbliche; questa opportunità è offerta solo ai portatori di crediti che abbiano una ragionevole probabilità di soddisfazione. I creditori che hanno convertito in Common i loro crediti possono spenderli presso ogni altra procedura per l’acquisto di ogni tipo di bene posto in vendita. Questo è l’esempio tipico di una Moneta complementare che nasce per risolvere un problema concreto, come già successo migliaia di volte nel mondo, quando nasce una Moneta complementare.
I miei lettori più fedeli già conoscono un esempio che riporto spesso, quello della moneta svizzera Wir. Nata nel 1934 (quindi oltre ottanta anni fa), venne istituita in tempi di crisi economica (che interessava l’Europa dopo il crollo della Grande Depressione del 1929 che coinvolse tante economie) per sopperire a un problema di rarefazione monetaria: non mancava il lavoro, non mancava chi avesse bisogno di lavorare, però mancava la moneta con cui retribuire quel lavoro. Oggi al circuito svizzero del Wir partecipano oltre 70mila aziende e l’associazione che lo gestisce una dozzina di anni fa ha chiesto e ottenuto una licenza bancaria, trasformandosi così in una banca che offre servizi in moneta nazionale (il franco svizzero) e in buoni Wir.
Questi esempi, sia quello del Wir che quello del Common, sono di fatto una lampante critica all’istituzione dell’euro, un progetto nato per motivi finanziari e che risponde a criteri finanziari, che non necessariamente coincidono con le esigenze dell’economia reale. Anzi, nel caso dell’euro non possono corrispondere alle esigenze dell’economia reale, perché non può esserci un unico strumento monetario che serva ugualmente bene economie tanto differenti, come quelle presenti nell’area euro, dalla Grecia fino alla Finlandia.
In mancanza di una moneta di Stato, occorre che la società civile si svegli e che per le proprie esigenze sappia trovare strumenti monetari adatti a sviluppare il proprio territorio e il proprio benessere.