Una notizia così, solo pochi anni fa, sarebbe stata inconcepibile: il fondo sovrano della Norvegia, il più importante del pianeta con mille miliardi di assets amministrati, ha deciso di togliere i titoli Oil & Gas dall’indice di riferimento. La decisione è stata presa per mettere il fondo “al riparo dalla caduta progressiva dei prezzi delle materie prime”. Ovvero del petrolio che è stata la fonte della straordinaria ricchezza del regno scandinavo, ma potrebbe trasformarsi in un insidioso boomerang, sia finanziario che ambientale. 



La scelta di Oslo arriva a ridosso di un altro shock, ancor più profondo, per il mercato dell’energia: il blitz del principe ereditario al trono saudita, Mohammed bin Salman, che da settimane tiene in custodia (pur dorata) 200 alti dignitari e nobili del Regno accusati di corruzione. Sembra che il principe intenda procedere alla loro liberazione solo dopo il versamento a mo’ di espiazione di fortissime penalità, utili a rimpinguare le casse del Regno, oggi in sofferenza. La vicenda promette di incidere a fondo sia sulle sorti del mercato del greggio che dello scacchiere geopolitico del Golfo. 



La prospettiva del declino strategico dei combustibili fossili sta corrodendo dalle fondamenta un Paese che sembrava solido perché immobile. L’indebolimento strutturale arriva poi nel momento peggiore, in una fase in cui l’Iran stringe l’assedio a sud con lo Yemen, a est con il Qatar e a nord con un Iraq filoiraniano e un Kurdistan indebolito, con una Siria alauita che si sta rimettendo in piedi e con un Libano che ogni giorno scivola sempre più nelle mani degli sciiti di Hezbollah. L’élite saudita si aggrappa agli Stati Uniti e a Israele, ma in questo processo si divide perché trova un’America divisa. Il giovane principe Mohammad bin Salman è salito al potere con l’appoggio di Trump con un colpo di mano che ha emarginato il cugino obamiano e ora sta attaccando il ricchissimo e anti-trumpiano Al-Waleed, la vittima più illustre delle purghe.



In questa cornice Riyad cerca di far valere nel modo più efficace il residuo potere legato all’egemonia sul greggio tradizionale. In questa chiave va letta la prossima, seppur complicata, quotazione di Aramco, lo scrigno delle riserve del Regno, una decisione che, in un certo senso, è coerente con le scelte della Norvegia: Riyad, a suo modo, cerca di ridurre la dipendenza dal greggio e reinvestire il ricavato nel faraonico progetto Vision 2030, ovvero la trasformazione del regno in una potenza tecnologica e turistica. Più facile a dirsi che a farsi. Intanto, tra pochi giorni, si cercherà di allungare l’accordo sul tetto di produzione tra Paesi Opec e non Opec. Il ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita, Khalid Al Falih, ha esortato l’Opec e i suoi alleati a estendere fino alla fine del 2018 il patto sul taglio alla produzione in scadenza a marzo. Ma la Russia, secondo quanto riferisce da qualche giorno Bloomberg, è riluttante ad annunciare già a fine mese l’estensione. 

Nel frattempo Laura Cozzi, l’italiana che cura il rapporto dell’agenzia mondiale dell’energia, ci fa sapere che di qui al 2025 l’80% della crescita dell’industria del settore sarà realizzato dagli Stati Uniti: lo shale oil, inesistente dieci anni fa, rappresenterà nel 2020 il 9% dell’offerta, molto più flessibile di quella attuale. Le conseguenze? Il residuo potere dei produttori tradizionali, Opec e non Opec, tende a calare. Al suo posto comandano sempre di più i petrolieri del Nebraska e dell’Oklahoma, sostenuti dai bond high yields delle banche. 

Intendiamoci, il grosso del petrolio continuerà ad arrivare dai produttori tradizionali. Nel frattempo, le richieste di greggio continueranno ad aumentare: si consumerà di meno in Occidente, specie in Europa, sotto la pressione del riscaldamento ambientale, ma molto di più in India (che sorpasserà la Cina entro il 2040) e in Africa: il 35% dei consumi sarà localizzati in Asia. Ma a fare il mercato non saranno più i grandi investimenti pluriennali degli Stati, lenti a partire, impossibili da fermare. La leadership è ormai passata allo shale oil: impianti più piccoli e flessibili, che si possono avviare e fermare nel giro di pochi giorni, a seconda dell’andamento dei mercati. Insomma i giganti, vuoi le grandi compagnie statali vuoi le Big Oil, continueranno a fornire i due terzi della domanda mondiale, ma il trend lo detterà lo shale oil, anche perché gli Usa, già oggi il primo produttore mondiale, si avviano a diventare da importatori di materia prima grandi esportatori, mentre i Paesi del Golfo, dopo gli investimenti nelle raffinerie, tendono sempre più a consumare in casa il petrolio dei giacimenti locali.  

Insomma, dietro i sommovimenti di questi giorni s’intravvede lo spostamento degli equilibri del mondo dell’energia, frutto e causa di sconvolgimenti geopolitici, oltre che della disruption tecnologica (auto, ambiente, elettricità) che sta cambiando il pianeta più in fretta di quanto non si sia portati a credere.