Non è stato un buon risveglio quello di ieri per il ministro Padoan. Anzi, penso che il caffè gli sia andato proprio di traverso, quando avrà letto il titolo di prima pagina de La Stampa: «Carige a un passo dal baratro. Allarme di Padoan». Insomma, il quotidiano torinese diceva chiaro e tondo che il rischio era quello di un weekend stile Lehman Brothers: o si interveniva o lunedì mattina per Carige poteva essere risoluzione. Di fatto, il fallimento. E la questione era talmente seria da obbligare il Mef a una smentita ufficiale: «Il ministro Padoan non ha fatto le affermazioni attribuitegli oggi dal quotidiano La Stampa». Quali? Il rischio risoluzione lunedì prossimo, appunto, ma soprattutto alcune parole molto nette: «L’Italia non può permettersi un’altra crisi». 



Tutto risolto? Non troppo. A stretto giro di posto, Consob sospendeva il titolo dell’istituto genovese in Borsa e anche Credito Valtellinese, altra banca alle prese con un complicato aumento di capitale, non riusciva fare prezzo e si ancorava a un -19% teorico. Paradossalmente, “grazie” alla morte di Totò Riina, l’effetto da allarme mediatico è stato evitato. Ma c’è stato dell’altro ieri che ha inviato segnali molto chiari, ancorché dissimulati. Parlando a un convegno a Francoforte, ecco cos’ha detto Mario Draghi: «La ripresa dell’Eurozona si sta nutrendo da sola, vale a dire che i fattori trainanti sono sempre più endogeni che esogeni. I principali venti contrari sono ora ampiamente dissipati anche se però restano rischi al ribasso, seppur legati a fattori esterni». Insomma, la solita supercazzola da Conte Mascetti. Ma poco dopo, ecco gli spiragli di messaggio, riferendosi alla stabilità dei prezzi come moloch per Francoforte: «Il compito della Bce non è finito. Non siamo ancora a un punto in cui la ripresa dell’inflazione sia in grado di autosostenersi senza la nostra politica accomodante».Insomma, il Qe prosegue e quanto detto lo scorso 26 ottobre è già vecchio: i limiti temporali valgono solo per i discorsi da conferenza stampa, la realtà è altra. Senza sostegno, viene giù tutto. 



Poi, il messaggio più sibillino, legato all’accusa che i bassi tassi di interesse ufficiali siano la causa della limitata redditività delle banche: «Gli studi della Bce hanno rilevato scarse prove del fatto che la nostra politica monetaria attualmente stia causando danni alla redditività. Ad ogni modo, i tassi netti sono rimasti piuttosto stabili negli ultimi due anni. E se in futuro vi fosse qualunque effetto negativo dei redditi da tassi di interesse, dovrebbero essere ampiamente bilanciati da altre componenti della redditività, come la qualità dei prestiti e di conseguenza i requisiti di accantonamento». Come dire, scegliete voi: o vado avanti con il Qe e non rompete per i tassi bassi o smetto e poi però non vi lamentate di quanto accadrà. Mettendoci un punto in più: se fate i bravi e accantonate per bene, come dice la Bce, potete godervi contemporaneamente Qe e rischio limitato sui tassi. 



E siccome accantonare fa rima con addendum sugli Npl in questo periodo, il luciferino rifermento di Draghi appare decisamente inviato in duplice copia: alla Landesbanken tedesche, ma anche alle nostre, politici nel panico e Commissioni d’inchiesta inclusi. Poi, il futuro premier italiano in pectore ha messo in fila alcune cifre, ovviamente dimenticandosi di mostrare l’intero quadro. Per Draghi, nell’area dell’euro il debito societario lordo sul valore aggiunto è tornato grosso modo al suo livello pre-crisi: «Nei Paesi vulnerabili il declino è stato più marcato». In Spagna, il debito societario è sceso dal 215% del valore aggiunto lordo all’inizio del 2012 a quasi il 150% oggi, lo stesso livello che aveva alla fine del 2004. Le imprese italiane hanno visto il loro rapporto debito/Pil scendere di circa 30 punti percentuali dalla fine 2012, tornando allo stesso livello di metà 2007. Per le famiglie, poi, «anche l’indebitamento lordo si sta riducendo e si trova appena al di sotto del livello di metà 2008». E, cosa importante per la ripresa, il deleveraging delle famiglie sta avvenendo in gran parte “passivamente”, cioè attraverso una crescita nominale, piuttosto che “attivamente”, cioè attraverso il pagamento di debiti o cancellazioni, ha aggiunto il numero uno della Bce. 

Inviterei Draghi, al riguardo, a fare un giro in un mercato di una qualsiasi città italiana o, meglio ancora, in una filiale bancaria, soprattutto attorno al 15 del mese, quando arrivano i saldi delle carte di credito, ormai strumento di sopravvivenza retail in puro spirito americano del “ci pensiamo il mese prossimo”. Poi, ecco il messaggio chiaro ai governi, di fatto un chiaro monito a Gentiloni e soci, dopo la bordata di Katainen dell’altro giorno. Per Draghi, infatti, con la ripresa in corso, «è il momento giusto per l’area dell’euro per affrontare ulteriori sfide alla stabilità. Questo significa mettere in ordine i conti e costruire riserve per il futuro, non solo attendere la crescita per ridurre gradualmente il debito. Significa attuare riforme strutturali che consentano alle nostre economie di convergere e crescere a velocità più elevate nel lungo periodo. E significa affrontare le rimanenti lacune nell’architettura istituzionale della nostra unione monetaria». 

Insomma, Francoforte chiama Roma. E lo fa forte e chiaro, in vista della campagna elettorale. Fn qui, ciò che Draghi può permettersi di dire in pubblico. Ma prima vi avevo detto che c’era dell’altro, ovvero cose sottintese che il numero uno dell’Eurotower – per ciò che il suo ruolo gli impone – è costretto a omettere. Altrimenti, altro che titolo di prima pagina de La Stampa di ieri. Il problema è che la palla di neve della prossima crisi finanziaria sta prendendo talmente velocità che ormai anche la stampa di settore più conservativa e autorevole parla dei rischi in maniera chiara, quando solo pochi mesi fa ometteva tutto e gridava al miracolo di Wall Street capace di rompere sempre nuovi record. 

Nel silenzio generale di media che riprendono sempre e solo ciò che fa comodo al momento, giovedì scorso il Wall Street Journal sparava un vero e proprio siluro verso il sistema bancario italiano, ovviamente prendendola molto alla larga, mettendo in mezzo proprio la Bce e citando un report di JP Morgan. Per il quotidiano statunitense, infatti, la Bce sarebbe di fronte a un palese caso di Catch 22, ovvero la necessità non solo di pressare le banche affinché diano risposte più aggressive ai loro problemi – vedi appunto l’addendum sugli Npl -, ma anche il rischio enorme connesso a questo processo regolatorio: mettere a rischio la fornitura di credito all’economia reale. E JP Morgan, guarda caso, prende in esame l’Italia e azzarda un arco temporale da brividi: con la nuova regolamentazione Bce, il processo di risoluzione in Italia potrebbe durare una decade. 

Ecco cosa dice al riguardo all’addendum JP Morgan nello studio: «Se la Bce farà passare le nuove regole, il credito alle piccole imprese diventerà impossibile. Alcune banche in Italia hanno cominciato ad affrontare il problema, operazione che ha incluso l’annuncio di piani per la vendite di sofferenze per miliardi di dollari nei prossimi tre anni. Stando ai nostri calcoli, per raggiungere la media europea sui non-performing loans, gli istituti italiani avranno bisogno di non meno di 10 anni». Avete idea questo cosa può significare per la nostra economia, al netto della crisi bancaria già parzialmente in atto e che rischia di diventare sistemica, se aggredita dalla speculazione? Non, non ce l’avete minimamente. Provo a spiegarvelo. Ma non ora. 

(1- continua)