Dunque, cosa rischiamo davvero come economia dal disimpegno reale della Bce rispetto alle politiche monetarie accomodanti? Quale prezzo rischiamo di pagare a un brusco ritorno potenziale verso un sistema di tassi normali? Partiamo da un presupposto: l’intera narrativa della ripresa dell’eurozona sincronizzata con quella globale è un balla. L’Europa dipende direttamente dalla Bce, le politiche reflattive della altre Banche centrali sono solo parziali, possiamo dire “di flusso”. E cosa comporta questa realtà? Un processo già noto come zombificazione del settore corporate: ovvero, il fatto che non solo moltissime aziende europee, come vi dico ormai da mesi, dipendono come tossici dal denaro a costo zero della Bce per finanziarsi, piuttosto che da quello – di fatto inesigibile – bancario, ma che questa dinamica di dipendenza ha portato le stesse aziende a fregarsene bellamente di mettere davvero a posto le cose, investire in macchinari e ricerca, operare sulla produttività e l’unità lavoro, trovare nuove vie di intrapresa, diversificare: questo grafico è qui a dimostrarcelo plasticamente. Nessun aumento degli investimenti, zero. Questo, nonostante un diluvio di denaro a costo zero.
E questo ci porta a due domande: primo, quanto stavano male i conti di quelle aziende in realtà e, quindi, quanto li hanno imbellettati per irretire gli azionisti? Secondo, cosa succederà davvero quando mamma Bce sarà costretta a chiudere i rubinetti, domandone esistenziale che ci spiega la necessità di Mario Draghi, venerdì scorso, di ribadire ancora pubblicamente che il sostegno monetario deve andare avanti? E sapete chi pagherà potenzialmente in maniera maggiore questo immobilismo, visto che le condizioni operative paiono peggiorate? Spagna e Italia.
A dirlo, sempre il Wall Street Journal, ma questa volta citando un fonte di quelle che scherzano poco e sbagliano ancora meno: la Banca per i regolamenti internazionali. E cosa ci dice la Bis, ovvero la Banca centrale delle Banche centrali? Prima di tutto, definisce cosa sia un’azienda-zombie: è un soggetto con almeno 10 anni di attività, trattato pubblicamente e le cui spese per interessi eccedono i ricavi prima di tasse e sevizio del debito. Almeno il 10% di aziende di sei nazioni europee (incluse Francia, Germania, Italia e Spagna) sono ufficialmente zombie, un aumento netto dal 5,5% del 2007. In Italia e Spagna, però, le cose vanno peggio, visto che la percentuale di aziende-zombie è letteralmente triplicata dal 2007, stando a dati Ocse. E nel nostro Paese quelle aziende impiegano il 10% di tutti gli occupati e circa il 20% di tutto il capitale investito nel 2013, stando agli ultimi dati disponibili (2016).
Come mai non sentiamo parlare di default a raffica e chiusure aziendali di massa? Perché a garantire una linea di supporto vitale a quelle aziende è proprio la Bce con i tassi di interessi negativi e la politica di acquisto obbligazionario. Il problema è che nonostante queste, esiste un numero di aziende che vengono definite incapaci di tornare indietro dal loro stato formale di undead: ovvero, sono già morte tecnicamente, ma ancora animate grazie al respiratore di Draghi. Chi opera nel settore lo sa tempo, ma è stato per almeno due anni vincolato a una sorta di tacito patto del silenzio al riguardo: ora però si comincia a fare i nomi e i cognomi e certe dinamiche malate ormai agli sgoccioli finiscono sul Wall Street Journal e non restano sospese alla chiacchiere carbonare di traders che bevono dopo il lavoro.
E quale nome è finito sull’autorevole quotidiano finanziario Usa? Uno italiano, utilizzato come esempio di specie per la dinamica che potrebbe innescarsi: Stefanel, il noto marchio di abbigliamento, definita archetipo delle aziende-zombie. Perché? Primo, perché ha presentato perdite per 9 degli ultimi 10 anni e ristrutturato il suo debito con le banche almeno sei volte, inclusi alcuni “periodi di grazia” durante i quali l’azienda si è limitata a pagare gli interessi su ciò che doveva. E oggi? Anche dopo radicali ristrutturazioni aziendali e del debito, Stefanel è riuscita a ridurre quest’ultimo solo del 12%. L’azienda si è rifiutata di commentare i fatti, quando il quotidiano l’ha interpellata, ma i numeri parlano chiaro, a partire dal fatto che in base al nuovo piano di ristrutturazione, due distressed-debt funds prenderanno il 71% di Stefanel alle fine dell’anno per 13 milioni di euro. Un saldo.
Giuseppe Stefanel, l’erede del marchio, vedrà la sua quota di controllo scendere dal 56% al 16%, il tutto con le banche che vantano crediti con il gruppo per 125 milioni di euro e che già oggi li vedranno calare a 110 milioni. Un grande marchio italiano, un patrimonio manifatturiero, un vanto per l’export: ridotto a quella che il Wall Street Journal chiama un’azienda-zombie. Questo sta già accadendo, prima ancora che la Bce davvero faccia qualcosa: siamo solo alla fase dell’annuncio del parzialissimo disimpegno, oltretutto temperato da parole come quelle pronunciate da Draghi venerdì scorso a Francoforte in difesa di una politica di stimolo che continuerà, ovviamente con la scusa dell’inflazione non ancora sostenuta, non per il rischio di default corporate di massa.
Cosa accadrà quando si varcherà il Rubicone del ritiro reale degli stimoli, se JP Morgan parla chiaramente di un sistema bancario italiano che non si libererà del veleno Npl prima di 10 anni almeno? E perché. a vostro modo di vedere, casualmente il Wall Street Journal – tra decine decine di casi in Europa – ha scelto un esempio italiano per spiegare cosa sta accadendo sottotraccia? E ora? Commissariamento morbido, quello già annunciato da Katainen, Draghi futuro premier e lacrime e sangue, quelle vere. Era scritto, sta arrivando. Anche per colpa nostra, perché debito e deficit per vincere le elezioni e tenere il potere non li hanno fatti né Bruxelles, né Francoforte, né il Wall Street Journal. Per il resto, solita terra di conquista che siamo sempre stati.
Banche che ballano, Europa che minaccia, stampa estera che denuncia e punta il dito. Benvenuti nel 1992 in versione 2.0. Poi non dite che non vi avevo avvertito in tempo.
(2- fine)